ASTIGIANDO.IT - turismo in Langhe, Monferrato e Roero

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gli Eventi letterari, i Libri, le Biblioteche, gli Scrittori vissuti qui o di passaggio per scoprire Langhe, Monferrato e Roero

ultimo aggiornamento: 07/09/2010

Asti, Terra di Gusto - www.astiturismo.it

Dove: Asti e Provincia
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Un viaggio del gusto che parte dalla descrizione della realtà gastronomica astigiando ripercorrendo, in un territorio straordinario, la storia e le tradizioni delle ricette. I classici della cucina Piemontese interpretati alla maniera astigiano dalla Scuola Alberghiera di Agliano in un viaggio fra morbide e verdi colline

Castelli Mediovali: Sentinelle del Passato -

Dove: Piemonte
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Una terra ricca di castelli il Piemonte. Ospita tra colline e pianure fortezze turrite e merlate, non prive però di grazia, ed eleganti dimore circondate da parchi.

Decameron. Prima Giornata. Novella Quinta -

Dove: Monferrato
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La novella da Dioneo raccontata, prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore né loro visi apparito ne diedon segno
; e poi quella, l'una l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poiché lui con alquante dolci parole ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fosser tra donne da raccontare, la reina verso la Fiammetta, che appresso di lui sopra l'erba sedeva, rivolta, che essa l'ordine seguitasse le comandò. La quale vezzosamente e con lieto viso a lei riguardando incominciò: Sì perché mi piace noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte, e sì ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d'amar sempre donna di più alto legnaggio ch'egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dello amore di maggiore uomo ch'ella non è, m'è caduto nell'animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna se' da questo guardasse e altrui ne rimovesse. Era il marchese di Monferrato, uomo d'alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltre mar passato in un general passaggio da' cristiani fatto con armata mano. E del suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il Bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar di Francia s'apparecchiava, fu per un cavalier detto non essere sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna; però che, quanto tra' cavalieri era d'ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte l'altre donne del mondo era bellissima e valorosa. Le quali parole per sì fatta maniera nell'animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare e propose di non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova; acciò che quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere ad effetto il suo disio. E secondo il pensier fatto mandò ad esecuzione; per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino; e avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l'attendesse a desinare. La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l'era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare; né la 'ngannò in questo l'avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamare di que' buoni uomini che rimasi v'erano, ad ogni cosa opportuna con loro consiglio fece ordine dare, ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a' suoi cuochi per lo convito reale. Venne adunque il re il giorno detto, e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio più accendendosi, quanto da più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un così fatto re ricevere, s'appartiene, venuta l'ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola sedettero, e gli altri secondo la lor qualità ad altre mense furono onorati. Quivi essendo il re successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea. Ma pure, venendo l'un messo appresso l'altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi, conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non per tanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse salvaggine avervi dovesse, e l'avere davanti significata la sua venuta alla donna spazio l'avesse dato di poter far cacciare; non pertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagione di doverla mettere in parole, se non delle sue galline, e con lieto viso rivoltosi verso lei disse: - Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno? - La marchesana, che ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio l'avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose: - Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall'altre variino, tutte perciò son fatte qui come altrove. Il re, udite queste parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la virtù nascosa nelle parole; e accorsesi che invano con così fatta donna parole si gitterebbono, e che forza non v'avea luogo; per che così come disavvedutamente acceso s'era di lei, così saviamente era da spegnere per onor di lui il mal concetto fuoco. E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d'ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che col presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell'onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n'andò.

Il Barocco in Piemonte -

Dove: Piemonte
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Un itinerario tematico dedicato al Barocco in Piemonte è un viaggio nel tempo attraverso l'arte e la storia tra la fine del Cinquecento e la metà del Settecento. Palazzi, chiese, basiliche e castelli rendono i quartieri e le cittadine set naturali per immergersi nell'epoca barocca. Partendo da Torino, dove nacque lo stato sabaudo e dove si trovano tra le massime espressioni dell'architettura barocca, si prosegue verso le residenze reali, le ville, le sinagoghe, i manieri dislocati su tutto il territorio piemontese. Senza dimenticare lungo il percorso i Sacri Monti a testimonianza dell'arte sacra e proclamati dall'Unesco Patrimonio dell'Umanità.

Il Golf in Piemonte -

Dove: Piemonte
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Oltre 40 circoli, strategicamente dislocati sull'intero territorio regionale, soddisfano le esigenze di tutti i golfisti, dal neofita al più esperto. Cinque tra i dieci campi segnalati come i migliori d'Italia dalle più prestigiose riviste di settore appartengono al Piemonte. Tradizione ed innovazione sono gli elementi che identificano la realtà dal golf piemontese: da Sestriere al Lago Maggiore la scelta è così vasta che spesso ci si perde nella magia di green che poche regioni hanno la fortuna di possedere. Una vacanza in Piemonte con la sacca in spalla significa anche vivere emozioni in città d'arte e di alta tradizione culturale, in ritagli di storia del nostro paese. Significa godere di una mondanità sempre più vivace, di opportunità di shopping di classe e qualità e di scoperte enogastronomiche impareggiabili

Il Monferrato -

Dove: Monferrato
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di Gianluigi Bera "...l’esultante di castella e vigne suol d’Aleramo..può sembrare banale e ovvio cominciare a parlare del Monferrato parten dal celebre verso carducciano,
che a forza di essere ripetuto e strombazzato in ogni occasione ha finito col diventare stucchevole e trombonesco; eppure, al di là della sua potenza evocativa, costituisce ancora oggi un parametro utile per capire come questa terra straordinaria abbia sempre colpito l’immaginario collettivo, non soltanto a livello nazionale. Anche l’Astesana, le Langhe, il Roero, il Canavese, tanto per rimanere in Piemonte, sono da secoli “esultanti” di vigne e punteggiate di castelli, ma non hanno Aleramo; non hanno, come il Monferrato, un legame altrettanto forte con il mito di un medioevo feudale e cortese incarnato e fatto storia vera dalla figura dei dinasti che lo governarono. Certo, si tratta di un mito rinverdito e rilanciato dal revival neomedievale dell’Ottocento, di cui Carducci fu appassionato cantore, ma affermatosi già in epoche lontanissime e non sospette ad opera di trovatori e poeti di tutta Europa, rafforzato e propagandato da un’intera civiltà che aveva eletto la terra monferrina a luogo ideale dell’aristocratica proesse, dove si rinnovava e perpetrava il sogno di Artù e dei suoi cavalieri. Il Monferrato non è, come spesso si fa finta di credere una “espressione geografica”, ma è una delle “piccole patrie” piemontesi nata dal connubio della Storia e del Mito. Genesi del territorio Bisogna, ancora una volta, partire da Aleramo, perché nella sua persona la Storia ed il Mito si fondono. La prima ci dice che alla fine del X secolo della nostra era, già potente funzionario dell’Imperatore Ottone I, fu nominato capo della “marca di Liguria Occidentale”, ed ebbe in concessione vastissimi possedimenti nei deserta loca tra Tanaro, Orba ed il Mare. Il secondo ci parla della leggenda, antichissima e già nota nel Trecento, secondo cui il giovane Aleramo si vide promettere dall’Imperatore tanta terra quanta sarebbe riuscito a percorrerne in tre giorni di galoppo; il suo destriero perse un ferro, e per riparare al danno e riprendere la corsa lui dovette servirsi di un mattone, da cui “mon-ferrato”. In realtà i discendenti di Aleramo presero il nome dall’area dove concentrarono maggiormente la loro politica di espansione dinastica, già definita “Monferrato” prima del loro avvento, sebbene limitata ad un territorio esiguo situato secondo alcuni tra il Po ed il Tanaro nei pressi di Valenza, secondo altri tra Chivasso e Trino. Il cognome della dinastia, “di Monferrato” appunto, passò in seguito a designare la vasta compagine statale da essa assemblata. Se poi l’antica area originaria si fosse chiamata così per via del farro che vi si coltivava ( da cui Mons pharratus), o per il fatto di essere particolarmente fertile (da cui Mons ferax) o ancora perché era costellata di insediamenti abitativi longobardi chiamati “Fare” ( da cui Mons Faratus) rimane unicamente spunto per dibattiti eruditi. In epoca medievale i marchesi di Monferrato riuscirono non solo a coagulare un amplissimo territorio, ma anche a conferirgli una solida identità e soprattutto un enorme prestigio ideologico attraverso l’eco delle loro gesta e della loro potenza. Il loro sogno di dominare tutta l’area collinare tra Po e Appennino, conferendole unità politica ed amministrativa, non riuscì a realizzarsi perché erano troppi i rivali che perseguivano le stesse ambizioni: Asti in primo luogo, i principi d’Acaia, i Savoia ed altri ancora. A partire dal XVI secolo si estinsero definitivamente i discendenti di Aleramo (gli ultimi regnanti di questa dinastia furono i Paleologi provenienti da Costantinopoli, il cui capostipite Teodoro era figlio di Iolanda ultima erede degli Aleramici) e lo stato monferrino passò ai Gonzaga di Mantova. Signori ricchi, potenti e lontani, se da una parte spremettero come un limone le terre di nuovo acquisto con una feroce pressione fiscale, dall’altra ne garantirono a lungo l’autonomia rispetto al resto del Piemonte, o meglio rispetto ai Savoia dalla forte politica accentratrice. Il Monferrato riuscì a conservare la sua prerogativa di terra non piemontese anche dopo la definitiva annessione al Regno di Sardegna, e la sua integrità territoriale fu perpetrata con l’istituzione delle antiche province di Casale e di Acqui, che ne ricalcavano esattamente i confini e gli àmbiti di influenza. Nel 1935 si ripristinò la vecchia provincia di Asti soppressa a metà Ottocento, che invece di limitarsi al retaggio storico e tradizionale dell’antica Astesana fagocitò alcune porzioni moralmente significative delle terre Monferrine. Da allora l’area definitivamente smembrata assunse un’identità informe ed ameboide, un ectoplasma indefinito dove la realtà della sua storia millenaria veniva puntualmente disconosciuta e disattesa dalla mancanza di politiche unitarie volte alla valorizzazione territoriale. La colpa di ciò va ascritta in parte all’Astesana, che accettò acriticamente la fasulla identità monferrina cucitale addosso nel dopoguerra da amministratori poveri di spirito; in parte si può assegnare alla passività del Monferrato, che ha sempre trascurato fino a tempi recentissimi la tutela e la rivendicazione delle proprie specificità . La zonazione vitivinicola attuata agli inizi degli anni ’70 per delimitare le aree a denominazione d’origine controllata peggiorò le cose, facendo un unico gran minestrone di territori, tipicità, storia, tradizioni, e fornendo ad esso un’identità intercambiabile che alla fin fine privava i termini “Asti” e “Monferrato” di qualsiasi riconoscibilità. Oggi le cose stanno cambiando, e sembra si sia capito come la valorizzazione del territorio e delle sue produzioni debba obbligatoriamente passare attraverso il recupero di un’identità forte e decisa. Rimane tuttavia ancora irrisolto e limitante il problema dell’unità di azione e di programmi, risolvibile solo tramite organismi estranei alla logica delle amministrazioni provinciali. Il paesaggio “Ivi non monti, ma bei colli et culti, / fertili, aprici sono et ben distinti,/ l’aratro patienti, ornati et fulti/ de vite et de fructifer arbor cinti. Sì che per lor beltade han dicto multi / da Dio e da Natura esser depinti.
A piè dei colli son valli et belli / et verdi prati et placidi ruscelli./ Sì che qualunque ben misura et vede/ di questa patria ogni suo colle et piano / dirà di Vener bella esser la sede/ et quella coltivar con propria mano./ Et chi ben pensa a quello che possiede/ il qual è necessario al victo umano / dirallo esser di Bacco albergo fido/ et di Cerer verace ostello, e nido.”
Con queste parole il casalese Galeotto del Carretto, non disprezzabile poeta del Rinascimento, delineava nel 1493 il ritratto di un paesaggio che incarna tuttora l’essenza stessa del Monferrato. Colline, innanzitutto, segnate dall’attività e dalla presenza dell’uomo in maniera profonda ma armoniosa. Cerere e Bacco, i campi e la vigna, oggi come cinque secoli fa si alternano senza mai prendere il sopravvento. Contrariamente all’Astesana o a certe zone delle Langhe, quest’area non ha conosciuto la fittissima dispersione dell’insediamento rurale; per ragioni storiche, economiche e sociologiche i paesi sono rimasti accentrati, mentre le abitazioni contadine sono prevalentemente organizzate in piccole frazioni compatte o in vaste ma ben distanziate “cascine” plurifamigliari. Il territorio ha così potuto conservare un’integrità ambientale che in molte sue parti raggiunge un’inimitabile perfezione, complice anche la levigata dolcezza dei rilievi collinari e l’alternanza quasi costante della vigna al campo, al prato, alla macchia di vegetazione spontanea che colonizza i versanti più impervi o gli scoscendimenti delle ripe. Si può ben capire come il solito Giosuè Carducci, formidabile coniatore di slogan che ancora oggi fanno la gioia degli assessorati al turismo, avesse definito queste terre “..una Toscana senza cipressi”. La loro forza sta nell’inconfondibile omogeneità, contraddistinta da “denominatori comuni” profondamente caratterizzanti ed inequivocabili. Al primo posto l’edilizia tradizionale che impiega largamente il tufo d’estrazione locale, un’arenaria a grana fine e compatta dalle tenui tonalità color avorio antico. Questo materiale, spesso alternato al cotto in piacevoli giochi cromatici, fu a lungo utilizzato negli edifici rurali e civili, e costituisce ancora oggi un inconfondibile marchio visivo della “monferrinità”. Altro elemento di tipicità locale è rappresentato dalle monumentali parrocchiali tardo-settecentesche, sorte quasi sempre in posizioni dominanti ed in forme grandiose soprattutto ad opera del grande architetto casalese Ottavio Magnocavallo. Più dei castelli, che pure vi sorgono numerosi e non di rado estremamente scenografici, esse sono protagoniste assolute nella sky line di questi luoghi. Infine, soprattutto in àmbito artistico e culturale, il Monferrato si identifica nell’opera del suo più celebre pittore: Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, vissuto tra il 1568 ed il 1625. Dotato di prodigiosa abilità tecnica, seppe incarnare lo spirito e l’epoca della Controriforma con una vena devota e poetica di stampo tardo-manierista. I suoi quadri pervasi da tonalità delicate e brillanti sono opere “..di lieve ed affabile poetica religiosa..”, ed affollano tutte le chiese monferrine, dalla capitale ai borghi più nascosti. La sua produzione godette sempre di grandi apprezzamenti ed onori anche dopo il variare dei gusti e delle committenze, quasi che il popolo di queste colline vi ravvisasse l’emblema visivo della propria identità.

Impressioni d'un viaggiatore del '700 -

Dove: Asti, Alessandria, Torino
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Donatien Alphonse François marchese di Sade ("prigione e scrittura") (tratto da:lafrusta.homestead.com, scritto da Sergio Corbello Un jeune homme d'une taille moyenne, assez rempli, cheveaux blonds, portant épée, vêtu d'un frac gris, culotte en soie couleur souci, ayant une canne à pomme d'or.
La conoscenza della riportata, anodina, descrizione (che "ictu oculi" appalesa la propria origine in un verbale di polizia) avrebbe forse consentito - abiti a parte - agli incuriositi Astigiani di identificare il personaggio che il 26 luglio 1775, con la scorta di un servitore, si aggirava per le vie della Città, visitandone un po' distrattamente i monumenti e - è ben fondata supposizione - con molta più attenzione i non pochi bordelli. Appreso il nome del forestiero, non avrebbero tuttavia tratto da tal conoscenza soverchi motivi di interesse: grazie ad essa, infatti, sarebbero in fondo soltanto stati edotti della circostanza che il biondo viaggiatore risultava essere un titolato d'Oltralpe, appartenente alla "categoria", allora piuttosto affollata, dei marchesi e con qualche trascorso giudiziario. Ben maggiore è invece l'attenzione che il nome in questione suscita in noi contemporanei, giacché esso, lungi dal riferirsi ad un qualsiasi nobiluccio del '700, sia pure noto alla Giustizia, appartiene a colui che è passato alla Storia come il "Divin Marchese". Quella del luglio 1775 risulta essere l'unica occasione documentata in cui si possa con certezza affermare che Donatien-Alphonse-Francois Marquis de Sade abbia soggiornato ad Asti, ma non si può escludere - anzi appare probabile - che altre volte egli abbia avuto la ventura di transitarvi. Data infatti al 1772 il suo primo viaggio in Italia, viaggio certo di piacere, giacché compiuto in compagnia dell'innamoratissima cognata, Anne-Prospére de Lonnay, chanoinesse non proprio di clausura, che Egli presentava quale consorte legittima, prendendosi con lei - come ritiene di dover puntualizzare il Conte de la Tour - toutes les privautés dues à ce titre. La decisione di partire alla volta dei lidi italici era stata piuttosto affrettata, in quanto il Marchese, di passaggio a Marsiglia, insieme al domestico-complice Latour, era stato coinvolto, il 27 giugno, nel cosidetto affaire des quatre filles marseillaises e su tale orgia - ché di questo si tratta - la magistratura del luogo aveva ben presto aperto un'inchiesta. (La descrizione di de Sade che inizia il presente scritto è appunto tratta dai verbali della Procédure de l'affaire de Marseille, pubblicati da M.Heine). Il Nostro aveva pertanto stimato estremamente opportuno ("nihil sub sole novi") di porre fra sé e gli inquirenti una frontiera e, mentre al termine del procedimento giudiziario su di lui si eseguiva condanna in effige su una piazza di Aix, Egli, con la disinvolta canonichessa, gaiamente visitava il Bel Paese, toccando, tra le altre città, certamente Genova e Venezia. Il primo soggiorno italiano si concluse però traumaticamente, con l'arresto, l'8 dicembre 1772, a Chambéry, per ordine del Re di Sardegna. I tre anni seguenti videro de Sade impegnato in non poche rocambolesche vicende, tra cui una fuga dalla fortezza di Miolans (10 maggio 1773) ed una serie ininterrotta di scandali di natura erotica. Dopo l'ultimo di questi, noto come l'affaire des petites filles, il 26 giugno 1775 fuggì nuovamente alla volta dell'Italia, dove rimase per circa un anno. Questo lungo soggiorno ebbe interessanti sviluppi letterari, giacchè Egli ne lasciò ampie notizie in un manoscritto, pubblicato per la prima volta ad opera di G. Lely e G. Daumas, col titolo Voyage d'Italie, ou dissertations critiques, historiques politiques et philosophiques sur le villes de Florence, Rome et Naples 1775-1776. Dalla protratta esperienza italiana si giovò inoltre abbondantemente per la redazione del romanzo L'histoire de Juliette ou les prospérités du vice, opera che, insieme a Justine ou les malheurs de la vertu, fa causa del suo definitivo arresto del 6 marzo 1801, quale autore di scritti scandalosi. Dalla lettura del diario di viaggio si apprende che la sua prima importante tappa italiana fu Torino, che toccò il 25 luglio, di buon'ora, ed ove si trattenne una sola giornata. Forse per la brevità del soggiorno le sue osservazioni sulla Città risultano piuttosto scontate e generiche. La capitale piemontese gli parve ville (...) d'une belle construction e segnalò in particolare che les églises y sont superbes, les rues belles, presque toutes alignées, et les maison bàties au méme niveau. Giudicò Palazzo Reale assez vaste et commode mais de peu d'apparence. Gli piacquero altresì i giardini reali, mentre fu sfavorevolmente colpito da Palazzo Carignano, giacché, sebbene sembri vasto, il est en brique et n'a rien ni de magnifique ni d'agréable. Quanto ai costumi della città gli parvero improntati à la plus grande sévérité. (Che la Torino del '700 non dovesse essere molto allegra non è considerazione da imputarsi allo spirito libertino del Nostro: una cinquantina d'anni prima anche l'austero Montesquieu non aveva lesinato acide osservazioni sul tenore di vita della nobiltà sabauda). De Sade non manca di fornire informazioni di carattere turistico circa l'Hòtel d'Angleterre (sito - come apprendiamo dalla Guida del Derossi nel 1781 - avanti la Chiesa di Santa Teresa, cantone San Eusebio), definito miglior albergo di Torino, giacché, sebbene tumultueuse comme toutes les grandes auberges (...) on y est et bien logè et bien servi. Ancor più avara di notizie sulla città risulta la descrizione del soggiorno torinese di Juliette (Protagonista del Romanzo citato sopra). La ragazza, giunta nella Capitale piemontese, assume il ben determinato proposito di utilmente impiegare il soggiorno italiano per trarre concreto vantaggio economico da tutte le sue beltà: nel far ciò, tuttavia, non tralascerà mai alcuna occasione per mescolare alle più ardite acrobazie fisiche quelle, non meno ardite, dell'intelletto. (Quanto alle prime, vale, per "incidens", osservare come, considerato l'attributo fisico che massimamente valorizza - indulgendo, a suo dire, ad un preciso "gusto" italico - ella sia senz'altro apparentabile a talune celebri "eroine" moraviane, dalle predizioni un po' particolari). Si può, in questa sede, tralasciare di richiamare in dettaglio le sue iperboliche - ma gustosissime - avventure torinesi a sfondo porno-filosofico-politico-truffaldino (Juliette in fondo rappresenta una curiosa sintesi degli umori del secolo), la cui meccanica, così assurda e paradossale, mi induce a consentire con il giudizio, a tutta prima stravagante, di Arbasino, il quale reputa il Divin Marchese scrittore comico piuttosto che erotico: mi pare però interessante rammentare come la nostra eroina non manchi di esprimere una valutazione alquanto severa circa la Città ed i suoi abitanti. E siffatta valutazione direi sia assumibile quale più autentica opinione del de Sade su Torino, giacché è intuitivo come, esprimendosi per bocca di un personaggio di romanzo, abbia avuto modo di esternare con ben maggiore libertà il proprio più intimo pensiero, che non scrivendo in prima persona. Il n'y a point, dans toute l'Italie, de ville plus régulière et plus ennuyeuse que Turin: le courtisan y est fastidieux, le citadin fort triste, le peuple dévot et superstitieux. Il viaggio del Marchese, accompagnato dall'ambiguo servitore Carteron, detto La Jeunesse, riprese nel tardo pomeriggio dello stesso 25 luglio, con destinazione Asti. I due, però, poco pratici della topografia locale, superarono senza avvedersene la nostra città e dovettero pernottare in un luogo, a tre leghe dalla stessa, sul quale, date le vaghissime indicazioni fornite, non sembra utile tentare di avanzare una qualche ipotesi di indentificazione: Cette poste est située dans une campagne des plus agréables et serait prise pour un fort joli chateau partout. L'intérieur ne repond pourtant pas à l'extérieur et la chère surtout y est détestable. Il 26, finalmente, de Sade pervenne ad Asti: la Città certo non lo entusiasmò: Cette ville, prodigieusement déchue de son ancienne splendeur, n'est presque plus rien aujourd'hui. (La frase si rinviene identica in Juliette, quale unico commento al passaggio nella città). Nota le mura antiche, di cui segnala lo stato di abbandono. Rimarca la circostanza che, al momento del suo soggiorno, non fosse acquartierata in loco neppure una guarnigione militare. È felicemente colpito da taluni edifici religiosi, ma si dimostra diarista tutt'altro che puntuale al momento di descriverli. Così si esprime: On voit deux belles églises dans cette ville, entre autres celle des Religieuses, peinte et ornée avec tant de goùt qu'on la prendrait plutòt pour une décoration d'opéra que pour un temple de la divinité. A margine della locuzione celle des Religieuses esiste, nel manoscritto originale, la sibillina annotazione son nom. Considerata la circostanza che anche in altri luoghi della narrazione ci si imbatte nell'annotazione predetta, avanzerei l'opinione che essa debba considerarsi una sorta di promemoria dell'autore, in vista di una redazione definitiva del diario: non rammentando, all'atto della prima stesura, l'esatta denominazione di taluni edifici, prese nota della necessità di approfondire successivamente la questione, onde rinvenirla. Non essendosi tuttavia mai più dedicato alla progettata opera di revisione, le indicazioni fornite permasero nella primitiva, vaga, stesura. Nel caso all'esame, ritengo che dalla specificazione des Religieuses si possa desumere che la Chiesa accedesse ad un convento di monache. Tale caratteristica si attaglia a più edifici religiosi all'epoca esistenti: come risulta però dai precisi riscontri lasciati dall'abate Incisa, in nessuno di essi si rinvengono in modo determinante le peculiarità indicate dal Marchese. (1) Non resta dunque che prendere atto di quanto egli scrive, senza fargli eccessivo carico delle lacunosità ed imprecisioni (e, in taluni casi, erroneità) delle notizie tramandate: non va infatti disatteso come il Nostro, per sua natura, fosse viaggiatore indubbiamente più attratto da nuovi "contatti umani" che dalla scoperta delle bellezze monumentali, ed in fondo sia molto più a proprio agio allorquando costruisce, con sfrenata fantasia, il viaggio libertino di Juliette di quando fornisce, misurandosi con la realtà, resoconto del proprio. Alla sera del 26 ritroviamo de Sade già ad Alessandria, dite de la paille, dove prende alloggio all'Hotel d'Angleterre, il migliore della città, ricordato da molti viaggiatori del sette e dell'ottocento (Les appartements sont beaux et bons, la chère assez délicate pour le pays, la maison de belle apparence, mais les prix excessifs). Anche il soggiorno alessandrino è fugace (riparte nel pomeriggio del 27), tuttavia ne fornisce abbastanza ampio resoconto. Con occhio esperto di ex soldato della guerra dei sette anni nota la pochezza difensiva delle mura cittadine, ma apprezza nel giusto valore la saldezza della Cittadella (la citadelle, séparée de la ville par le Tanaro que l'on passe sur un assez beau pont, est très forte). Da uomo di mondo sottolinea la relativa eleganza della città (Elle me parut bien habitée et je comptai plus de quarante équipages à la promenade) e non manca di ironizzare sugli atteggiamenti galanti - certo non propriamente parigini - dell'ufficialità sabauda. Ricorda infatti come, dopo la passeggiata in carrozza, vi sia l'uso de venir se faire voir sur la place d'armes. Les carrosses s'y rangent, les officiers montent aux portières, et là toute la galanterie piémontaise se déploie. Quanto ai monumenti cittadini fornisce notizie della cattedrale, del municipio e di un terzo palazzo. Anche in tale circostanza il Nostro non manca di essere confuso. Senza soluzione di continuità rispetto al passo da ultimo citato, così si esprime: "Cette place est longue mais mal batie. On y construisait, lorsque j'y passai, un assez bel édifice mais qui seul ne l'embellira pas. La cathédrale, batiment gothique et sans ornement extérieur, prend à elle seule presque un des longs còtes, et masque un assez bel hòtel de ville, situé sur un espèce de prolongation, au retour de cette place. Dans la construction de cet hòtel de ville, on est étonné de voir le premier ordre de colonnes infiniment inférieur au second. Ce défaut choque infiniment, surtout dans un bàtiment moderne qui, sans cela, aurait quelque beauté ". Il richiamo alla cattedrale risulta appropriato: Egli si riferisce al vecchio duomo alessandrino, dall'austera facciata dipinta a strisce orizzontali rosse e bianche, sito sul sedime dell'attuale Piazza della Libertà, le cui fondamenta risultavano pressoché coeve alla data di fondazione della Città. Il duomo, con il celebre campanile quadrato (su cui era collocato l'orologio a tre quadranti, attualmente incastonato nella facciata del municipio), venne abbattuto una trentina d'anni dopo la visita ad Alessandria di de Sade, nel 1803, per ordine del governo napoleonico. Per quanto attiene all'edificio in costruzione esso, a dispetto della sua indicata collocazione presso la Piazza d'armi, può risultare unicamente l'attuale palazzo del comune (su tale identificazione concordano anche i già menzionati curatori dell'edizione a stampa del manoscritto), la cui parziale ricostruzione era stata appunto affidata, nel 1774, all'architetto Caselli, e per la quale, nel 1775, fervevano i lavori. (La fabbrica subirà - come noto - ancora rimaneggiamenti nei secoli successivi). Resta infine da individuare l'edificio che, "mascherato" dalla cattedrale, il Divin Marchese denomina Hòtel de Ville. In relazione a quanto si è appena detto, considerata l'indicata collocazione del palazzo, la descrizione fornitane e la sua riconosciuta modernità, non credo possano sussistere dubbi sul fatto che esso debba essere individuato nell'alfieriano Palazzo Ghidini. A conforto di de Sade si può comunque rammentare che le riserve estetiche da lui avanzate sulla facciata dell'edificio trovano conforto anche nel pensiero del Mallé (Le arti figurative in Piemonte, Vol. II, p. 95), il quale imputa all'Alfieri la sua eccessiva rigidità e la circostanza di aver ritrovato per essa "persino qualche intellettualismo guariniano ed un timbro di più compassata etichetta". Come già si è detto ancora il giorno 27 il Nostro lascia Alessandria: per lui, come per Juliette, l'avventura italiana non è che all'inizio.                                                                                          (1)- Potrebbe trattarsi della Chiesa facente parte del convento di S. Anna.Il campanile barocco della chiesa è la prima opera architettonica di Benedetto Alfieri. (Cfr. S. Taricco, Benedetto Alfieri, in " Il Platano ", a. I, n. 1, gennaio-febbraio 1976, pag. 5 e seg). Nota bibliografica Per una globale conoscenza della produzione e delle vicende umane del Marchese de Sade rinvio alle rigorosissime Oeuvres Complètes du Marquis de Sade, Edition définitive, Paris, MDCCCCLXVI. In esse L'histoire de Juliette, ou la prosperité du vice è collocata nel tomo VIII, mentre Voyage d'Italie, ou Dissertations critiques, historiques, politiques et philosophiques sur les villes de Florence, Rome et Naples 1715-1776 neI XVI. L'edizione, di limitata tiratura, è raramente reperibile nelle biblioteche italiane. La completa documentazione relativa alla " Procedura di Marsiglia " è contenuta in M. Heine, Le Marquis de Sade, Texte établi et préfacé per G. Lely, Paris MDCCCCLX.

La Salsa del Diavolo - Beppe Fenoglio e la cucina della sua Langa

Dove:
Who:Paolo Ferrero, Beppe Fenoglio e la cucina della sua Langa
La degustazione della salsa del diavolo tra le ricette del mondo fenogliano: un’acre bàgna di aglio, acciughe e pomodoro
Con animo di gastronomo e nascenti velleità di scrittore, in una narrazione molto originale, impastata di stati d’animo e di ricordi legati al suo lavoro, Paolo Ferrero ha raccolto più di cinquanta ricette in Alta e Bassa Langa dalla viva voce di cuochi del paese, ricercando sapori che rendessero con fedeltà lo spirito delle differenti pagine fenogliane; descrive cibi e preparazioni capaci di restituire alla suggestione del lettore la metrica e il tessuto della narrazione che attraversa le opere più note di Beppe Fenoglio. I sapori de La Malora e dei Racconti del parentado sono schietti e popolari, essenziali come la sua prosa, scarna ed affascinante: si pensi al budino coi “gherigli” di pesca che sa di pazienza, di parsimonia, e nel vago amaro della sua timida dolcezza ci ricorda il delicato sogno d’amore di Fede e Agostino.Nei romanzi partigiani il cibo assurge a valore d’emblema, di allusione: si pensi al pane appena sfornato, indispensabile nella sua purezza di gusto e di nutrimento; oppure alla tazza di miele e acqua bollente che la padrona della fattoria Gambadilegno prepara per i suoi ideali figli nel giorno dei morti, qualche attimo prima che scoppiasse "quel grande fragore di catastrofe". Paolo Ferrero: nato a Torino nel 1965, non è un letterato di professione, ma è stato un ristoratore professionale: è stato il titolare del Ristorante “Il Canestrello d’Oro” di Cinaglio (AT). Attualmente scrive di cibi e di vini e organizza tours gastronomici e culturali tra Langa e Monferrato.
10€

Moncalvo, guida Turistica - ed. 2010

Dove: Moncalvo
Who:, ed. 2010


Monferrato splendido patrimonio - edizioni SE.DI.CO. (Lorenzo Fornaca)

Dove: Monferrato
Who:AA.VV, edizioni SE.DI.CO. (Lorenzo Fornaca)
Splendido omaggio al Monferrato e alla pittrice Matilde Izzia, un vero atto d'amore
Un grande e prestigioso volume che, per la prima volta in un unico libro, comprende storia, biografia e catalogo; imperdibile capolavoro da collezionare in tiratura limitata: solo 2500 copie, 440 pagine in grande formato (cm 27x32); 45 capitoli scritti da 25 autori, tra i più valenti studiosi e appassionati di storia e di arte, per illustrare, in modo semplice ed accattivante, il Monferrato nella storia, nell’arte, nella politica dalle sue fascinose e leggendarie origini sino alle tre dinastie che lo governarono, i più accattivanti e gustosi argomenti, alcuni dei quali narrati per la prima volta, si tratta per alcuni di essi di autentiche primizie, assolutamente inedite; una raffinata iconografia composta da circa 500 illustrazioni a colori e disegni originali della pittrice Izzia oltre al catalogo delle sue opere ed alla sua biografia. L’artista e la terra che le ha dato i natali, una pittrice che con le sue opere, ancora tutte da interpretare, stupisce e incanta per l’energia che esse sprigionano.
I Capitoli
Carducci e il Monferrato (Mario Paluan)
Le dinastie del Monferrato (Roberto Maestri)
Archeologia nel Monferrato ( Enrica Fiandra-Valentina Cabiale)
I saraceni e il Monferrato (MarioPaluan)
Bianca Lancia e Federico II (MarioPaluan)
Manfredi e Benevento (MarioPaluan)
Arte e Architettura in Monferrato (Sergio Panza )
Abbazie e chiese romaniche (Carlo Caramellino- Vittorio Croce)
Dipinti e affreschi medioevali ( GianFranco Cuttica di Revigliasco )
Castelli e antiche dimore (Sabina Fornaca)
Letteratura dai trovatori alla fine dello stato (Dionigi Roggero)
Letteratura delle antiche tradizioni (Aldo Gamba)
Monferrini in terra santa (Walter Haberstumpf )
La pittura all’epoca del Moncalvo (Carlo Caramellino)
Le Terme di Acqui (Gianni Rebora)
Casale la capitale e gli assedi (Dionigi Roggero)
Le origini della Diocesi di Casale (Carlo Tibaldeschi)
Le origini della diocesi di Acqui Terme (Giacomo Rovera)
Crea il Sacro Monte(la Madonna il culto oggi) ( Mario Paluan-Francesco Mancinelli)
Ambiente e Paesaggio ( Marco Devecchi )
Acqui Terme e il Monferrato (Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre)
Alba e il Monferrato (Giulio Parusso )
Alessandria e il Monferrato ( Roberto Maestri )
Asti e il Monferrato ( Gian Luigi Bera)
Canelli e il Monferrato (Gian Luigi Bera)
Chivasso e il Monferrato (Fabrizio Spegis- Carlo Caramellino)
Il marchesato di Incisa (Beppe Baldino)
La contea di Cocconato(i Radicati) (Franco Zampicinini)
Lu e il Monferrato (esempio da imitare) (Gianfranco Ribaldone)
Moncalvo e il Monferrato (Edoardo Simone e Mario Paluan )
Nizza M.to e il Monferrato (Beppe Baldino)
Ovada e il Monferrato (Alessandro Laguzzi-acc.urbense)
Trino e il Monferrato (Mario Paluan)
Gli Ebrei e il Monferrato (Alberto Cavaglion)
I Cavalieri : Templari e altri (Claudio Martinotti Doria)(Gianfranco Ribaldone)
La guerra la peste la caccia alle streghe nell’alto Monferrato ( Carlo Prosperi)
Il Monferrato nell’unità D’Italia (Aldo Gamba)
Il Monferrato nel palio di Asti (Sergio Panza)
I luoghi dei racconti (Claudio Galletto- Dionigi Roggero)
Le antiche tenute(e il vino) (Sergio Miravalle)(Donato Lanati)
Cristoforo Colombo monferrino (Giorgio Colombo Casartelli )
Don Bosco e il Monferrato (Claudio Galletto)
I Santi in terra monferrina (Peter Mazzoglio)
Il Monferrato visto dagli emigranti (Bobby Tanzilo- Giancarlo Libert)
Il Monferrato visto dagli inglesi (Gregory Wright )
Il Monferrato visto dai tedeschi (? )
Noemi Gabrielli e il Monferrato ( Carlo Caramellino)
Leonardo Bistolfi e il cenacolo di Sofia Bricherasio (Giuliana RomanoBussola-GianLuigiFerraris)
Lo scrigno dei viaggi in Monferrato (Dionigi Roggero-Luigi Angelino)
prezzo di prenotazione 88€ anzichè prezzo di listino 110€

Terre d'Asti da scoprire -

Dove: Asti e Provincia
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Asti e la sua Provincia: un Grand Hotel

Tradizioni popolari nella vecchia Asti -

Dove: Asti
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di Piera Pareti (Estratto da "Il platano", rivista di cultura astigiana, Asti, anno ?, pp 31-37) Possiamo dare al termine tradizione popolare la maggiore estensione possibile e comprendere in esso il linguaggio, il canto, le feste, la religione, la danza, il lavoro, il sentenziare del popolo, tutto quanto insomma investe la vita popolare negli innumerevoli aspetti che essa presenta, nelle cerimonie e nelle usanze che accompagnano la vita di un uomo.
Protagonista il popolo nel significato più vasto; quel popolo che è tutto un tessuto di immagini e di proverbi, espressivo e religioso come quello di Omero, attivo e prudente come quello di Esiodo; quel popolo che ancor oggi accompagna ogni suo desiderio, ogni suo pensiero per il futuro con un riverente: se Dio vorrà. Si tratta di quel popolo che parla per lo più il dialetto, in cui tramanda di generazione in generazione i suoi più significativi modi di dire. E’ infatti il linguaggio uno degli elementi più caratterizzanti di una gente, le cui espressioni continuano ad essere vive attraverso i secoli e ai presenti ricordano i tempi antichi e antichissimi di quel popolo di cui fecero parte i loro padri, i loro nonni, gli avi, i più lontani antenati. Gli Astigiani di oggi non hanno difficoltà a comprendere espressioni idiomatiche come queste: a l'ha semper freid ai pé (felice comparazione con chi è così povero da aver sempre le scarpe bucate che rendono i piedi freddi ed umidi); oppure: l'han mangiaje fin-a le braje (riferimento un po' compassionevole e un po' ironico a chi si è lasciato portar via tutte le sue sostanze); oppure: fà 'd patt ciair e parla poch (avvertimento che si accorda assai bene all'indole pratica dei piemontesi); e ancora: mostré ai gat a rampigné (satira della smania di insegnare a qualcuno cose di cui egli è già maestro); e tante altre espressioni che riguardano fenomeni meteorologici tra le quali questa: se pieuv al Vener Sant a pieuv Magg tutt quant, se pieuv nen s'la rama d'uliva, a Pasqua l'acqua a riva; altre riguardano la farmaceutica popolare, che talvolta argutamente s'infischia dei medici, tra le quali questa: chi a pissa ciair s'anfot di médich. Il concittadino Vittorio Alfieri fu motivo per gli Astigiani di una espressione che rimase a lungo viva tra il popolo: al giovane che studiava e prometteva ottima riuscita si soleva dire: testament d'Alfieri! (in modo veramente comico se si pensa che testament stava al posto di testa!). Un'altra espressione legata ad una figura leggendaria continua ancor oggi la sua vita, se le filodrammatiche locali (recentemente la Compagnia A. Brofferio) s'impegnano a riesumarne le vicende. L'espressione è questa: Gelindo ritorna! Gelindo ritorna! con cui si proverbiava colui che in procinto di partire non si decideva mai e poi finalmente se ne andava, ma per ritornare subito dopo e faceva ciò cinque o sei volte di seguito. Gelindo ritorna! E Gelindo simpatica figura di pastore che con le sue parole scherzose rallegrava i suoi compagni, ritornava effettivamente ogni anno, alla vigilia di Natale, nelle sacre rappresentazioni che si realizzavano presso le emblematiche capanne del Presepio. Il nostro popolo con questo linguaggio viveva la sua poesia e cantava i suoi canti. Erano canti anonimi che non avevano pretese d'arte e tuttavia ci appaiono così significativi di situazioni e di momenti di gioia o di tristezza, di illusioni o di delusioni; così li troviamo nelle raccolte di canti monferrini, dove tra i molti che si cantavano specialmente nelle feste di maggio, notiamo quelli sul fascino delle fanciulle, per esempio della bella Margheritin, o sulla prelibatezza di semplici cibi tradizionali per esempio della polenta spalmata di cacio; altri sono i canti dei coscritti, altri i canti degli emigranti nei primi decenni del secolo, epoca in cui si sentiva cantare in Asti la nenia lamentosa che accompagnava il contrasto tra il figlio che voleva partire per l'America e la madre che gli si opponeva, mentre il fratellino interveniva a perorare la causa del partente; il figlio: Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar; la madre: Cento lire te le dò, ma in America no no no!; il fratellino: Mamma mia laselo andé! ma quando l'emigrante si trovava in alto mare, mentre il bastimento stava per affondare, così mandava al cielo le sue ultime parole: Maledetto il fratellino che m'ha dato la libertà. Ma erano soprattutto canti di maggio; tradizione antichissima che risale ai floralia dei pagani e fu esaltata dal calendimaggio fiorentino del Rinascimento, passò in Piemonte, giunse in Asti, dove i giovani della città e della campagna il 1° maggio o la prima domenica di maggio, si riunivano in gruppetti che avevano al centro una bella fanciulla assai ben adorna, andavano a bussare alle porte e così cantavano: Guardè la nòstra sposa, coma l'è ben dobà, as mìa el fior dël persi quand ca l'è botonà, ricevevano un qualsiasi regalino e ne andavano via contenti. Tra le feste molto seguite in maggio vi era quella che aveva al centro la corsa d'jaso a Quart, per cui si ricorda un sonetto del 1843, che incomincia: Bsògna che n'a vòta jaso aveiso j'ari. Ma la festa delle feste era quella patronale di S. Secondo, di cui non si può esattamente rintracciare l'origine, ma di cui si sa che era già importante nel 1100, se si legge che in quell'anno il comune di Asti obbligava i suoi feudatari a partecipare alla festa annuale del Santo custode Secondo, portando una torcia. Poco più tardi vennero i fuochi artificiali, l'incrementata fiera carolingia, il Palio, con tutte le cerimonie religiose e civili che l'accompagnavano. In un primo tempo il giorno celebrato era il 30 marzo, ritenuto il giorno anniversario del martirio del Santo, poi fu la domenica in Albis, poi il giovedì dopo questa domenica, quindi nel 1818 si fissò il 1° martedì di maggio. Due erano le celebrazioni religiose, una nella collegiata di S. Secondo, l'altra nel capitolo della Cattedrale. Nella mattinata di domenica il Vescovo assisteva alla Messa nella cattedrale, presenti in appositi banchi tutte le autorità cittadine; poi solennissima processione con tutto il clero, le confraternite, il sindaco e tutti gli impiegati municipali, seguiti da gran folla (itinerario: via Cavour (l'odierna via Gobetti), corso Alfieri fino alla Torre Rossa con ritorno per corso Alfieri, via Roero, via Q. Sella, l'odierna piazza Statuto fino alla Collegiata: qui, davanti alla chiesa benedizione e concerto di trombe. Il lunedì cominciavano le funzioni nel Capitolo della Cattedrale, dove si concludevano il martedì; in questo giorno messa solenne alle dieci a cui partecipavano - vi irrompevano a tamburo battente e al suono delle trombe a messa iniziata - i municipali al completo, accompagnati dal Collegio dei Procuratori e preceduti dalla banda cittadina e si disponevano davanti alle cappelle laterali dedicate al Santo Patrono; all'offertorio il Sindaco, accompagnato da un valletto si accostava all'officiante e gli presentava il Palio, mentre il Presidente dei Procuratori gli offriva una torcia e alcune monete antiche. Finita la messa tutti si recavano, sempre al rullo dei tamburi e al suono delle trombe, al Palazzo di Città. Alle feste religiose si intrecciavano, come oggi, quelle civili in particolare i fuochi artificiali, la grande fiera, il Palio. Lo spettacolo pirotecnico si svolgeva alla vigilia del giorno consacrato al Patrono, cioè dal 1818 al lunedì sera. Si sa dalle cronache che i bagliori dei fuochi policromi - veramente straordinari e di grande fama - giungevano fino alle più lontane colline dell'astigiano e del Monferrato, cosicché coloro che non avevano potuto trovare posto in uno dei tanti carretti a molle, che trasportavano le folle rurali in città, portandosi in qualche luogo scoperto, potevano godere da lontano la suggestività dello spettacolo. Dopo i fuochi vi era l'illuminazione delle contrade e specialmente della Contrada Maestra (l'odierno corso Alfieri), della contrada di Turinetto (l'odierna via Garibaldi), nel borgo di S. Pietro e in quello di S. Caterina. L'illuminazione era composta da moltissime candele alle finestre e da fanali e lanternoni per le strade (S. Caterina si vantava di avere i più belli, larghissimi, composti di sessanta fogli di carta reale); vi erano anche molti striscioni con iscrizioni di questo genere: Asta laeta gaudens Secundo Concivi patrono. Advena, quot vides plausus Secundo dicantur (soprattutto nella contrada che da S. Martino portava a S. Anastasio). Dopo la straordinaria fiera a cui affluivano genti da tutta Italia e anche dall'estero, ecco la attesissima corsa del Palio. La corsa è tradizione antichissima, se cronacando il XIII secolo Guglielmo Ventura poteva scrivere che nel 1275 gli Astigiani corsero il Palio; la tradizione si mantenne anche dopo il tramonto della gloriosa indipendenza comunale, durante le signorie degli Angioini, dei Marchesi del Monferrato, dei Visconti, dei Duchi d'Orleans e dei re di Francia. Passata la Contea Astese in dominio dei Savoia, la tradizionale corsa fu ancora più fastosa e si svolse lungo la via maestra fino al 1860, anno in cui la corsa cominciò ad effettuarsi sulla piazza del mercato, costruita allora, ma venne a perdere in parte la fisionomia antica. Rimase e rimane tuttavia una delle manifestazioni più folcloristiche d'Italia, anche se Siena, con il suo Palio vanta la priorità dell'origine della corsa. Attraverso le cronache astensi dei secoli passati noi possiamo conoscere innumerevoli particolari di tale corsa, che ancor oggi vive ripetendo motivi, cerimoniale, costumi del tempo passato. Tanto per ricordare qualche particolare momento, si può risalire ad alcune pagine dell'Incisa che ci racconta che quando nel 1796 il Palio fu vinto dai Torinesi (alla corsa potevano partecipare anche forestieri), si celebrarono feste ancor più solenni del solito; i Torinesi furono accompagnati dagli Astigiani in corteo di carrozze fino a Moncalieri (i nostri concittadini pagarono allora fino a 40 lire per piazza, cioè per posto - prezzo folle!) dove furono accolti da trecento cavalieri seguiti da duemila militi a piedi; questo enorme corteo, entrato in Torino per la porta Po raggiunse la piazzetta reale dove il Re gradì assai l'omaggio del Palio vinto dai Torinesi ad Asti. Per vedere questa corsa affluiva in Asti gran folla di Siondini a che dal giorno prima si sistemavano in casa di parenti, amici e conoscenti. Finita la corsa tutti insieme astigiani e Siondini andavano a bere nelle osterie che si trovavano numerose e assai frequentate nella nostra città. A proposito del fervido culto di Bacco dei nostri concittadini dei tempi passati possiamo leggere un lungo elenco delle osterie che facevano bella mostra in Asti alla fine del 1700 e inizio 1800; è stato fatto da un libraio, di nome Tessiero, che si dilettava di tali statistiche mentre attendeva alla sua attività di libraio nella bottega che possedeva, naturalmente sotto i portici dei Librai, che sono quelli che attualmente vediamo a sinistra della via Gobetti. Egli dunque ci enumera cinquantadue Hosterie tra le quali famose figurano il Lion d'oro (in contrada maestra, vicino al Palazzo degli Spagnoli, che forma angolo tra corso Alfieri e via del Teatro) che primeggiò fino al 1793 quando s'inaugurò a l'oberge Reale sul principio del Borgo di S. Maria Nuova; e l'osteria dei tre Ciochini vicino alla Chiesa di S. Caterina (rimase con il nome cambiato in tre Campanelli fino al 1951); un'altra importante osteria tenne a lungo l'insegna in Borgo S. Maria Nuova, quella del Pesce, salita poi al rango di albergo del Pesce d'oro. Tante altre appaiono citate tra cui il Muletto e la Stella (vicino alle prigioni che erano in contrada Natta, ora Q. Sella), la Mosca d'oro (in piazza delle Grazie che è oggi piazza Astesano); e ancora l'albergo del Cervo, che aveva la sua sede presso il brutto e maleodorante mercato coperto che dopo una vita di circa quarant'anni fu abbattuto una cinquantina d'anni fa. Per costruirlo avevano abbattuto la famosa vecchia drogheria di Monsu Galet che divideva una piazzuola in due piazzette, rispettivamente Piazza delle Erbe (verso il Santo) e piazza del Riso (verso l'attuale via XX Settembre), che nel 1860 furono riunite con il nome di piazza delle Erbe. Accanto alla tradizionale festa patronale tante altre ve n'erano per i goderecci astigiani. S'incominciava con il I° gennaio, giorno delle strenne in cui, per dirla con l'Incisa, la città tutta era in parte molestata e in parte beneficiata dalla strenna che i garzoni dei panettieri, dei macellai, insomma di tutti i negozianti, andavano a chiedere ai loro clienti, convinti di aver meritato un premio per i servizi resi durante l'anno; veniva poi la festa del 17 gennaio, di S. Antonio abate, in cui venivano riuniti davanti a determinate chiese i cavalli e gli asini, che ricevevano una speciale benedizione - questa era la festa degli asinari -; al 20 gennaio i brentari festeggiavano il loro protettore S. Sebastiano nella Chiesa di S. Paolo, dove ancor oggi si conserva una statua del Santo. Veniva il Carnevale e gli Astigiani si divertivano tra Balli e Marionette e il taglio del collo dell'oca sulla pubblica piazza; poi vi erano le recite dei filodrammatici dilettanti e, a chiusura dei divertimenti carnevaleschi, gli spettacoli dell'opera buffa, che tennero per molti anni il cartello nel palazzo Malabajla e dal 1812 nel teatro d'Asti, nella ex chiesa di S. Bernardino. In Quaresima, tolta la parentesi di S. Giuseppe celebrata dai falegnami, ebanisti e minusieri nella Chiesa della Consolata, gli Astigiani meditavano sui loro peccati e specie le donne erano devote e si congregavano nella confraternita delle Umiliate, nella Chiesa di S. Giovanni presso il Duomo. Tra le molte processioni di quel periodo dell'anno, certamente la più impressionante era quella del Sacro Enterro, cioè la sepoltura di Cristo, istituita nel 1694 dal Vescovo Migliavacca; vi partecipavano tutte le Confraternite, i corpi musicali, il Sindaco e i consiglieri, i nobili seguiti da tutto il popolo; usciti dalla Chiesa della Misericordia che era all'angolo di Via del Tribunale e piazza Catena (abbattuta non molti anni fa per far posto all'attuale palazzo di Giustizia) percorrevano la piazza Catena, costeggiavano il Vescovado, passavano per via dei Varroni, poi davanti al Monastero di Gesù (occupato dal Michelerio), svoltavano in contrada Maestra, per giungere a piazza del Santo, quindi ritornare alla Misericordia, dove si tumulava il cataletto sotto 1'altar maggiore. Nei successivi mesi dell'anno gli Astigiani, secondo la loro arte, cioè il loro mestiere, facevano altre feste; i lavoranti della seta festeggiavano S. Giobbe in Aprile e sempre in Aprile i servitori ed i carrozzieri festeggiavano S. Vitale; il Lunedì di Pentecoste i parrucchieri ricordavano il beato Amedeo di Savoia e il 24 giugno i pellicciai si rivolgevano a S. Giovanni Battista; in Ottobre S. Crispino era festeggiato dai calzolai, in Novembre S. Omobono era invocato dai sarti e mercanti e in Dicembre S. Lucia dai ciabattini. Durante queste giornate di festa gli astigiani non andavano soltanto in chiesa a pregare ma si dedicavano con fervore anche alle danze; da sempre la danza risponde a una esigenza spirituale del popolo e sempre fu presente nelle feste a carattere popolare. Nella nostra città s'impose e fu viva fino a non molti anni fa la tradizione della Corenta e del Corenton. La Corenta era una specie di veloce tarantella che metteva alla prova la resistenza dei ballerini; alla fine di essa, richiesto a gran voce da tutti era il Corenton, danza più indiavolata e matta della Corenta. Sovente il Corenton era preparato dagli organizzatori del ballo, gli abbà, i quali cercavano di rifarsi delle spese di allestimento della festa; si poneva all'asta un mazzo di fiori, asta che veniva più volte interrotta per permettere all'ultimo offerente di ballare una sua danza al centro di tutti gli altri ballerini; dopo ogni sosta l'asta riprendeva più animata fino a che, cessate le offerte e aggiudicato il mazzo di fiori al più alto offerente, si ballava in onore di lui l'ultimo Corenton, che pareva non dover più finire. Spesso questa danza diede luogo a vari conflitti con percosse a sangue tra i giovani che volevano portarsi via il trofeo; si usò infatti l'espressione: l'han faje balè 'l corenton, per dire che le avevano suonate a qualcuno. Non possiamo non citare la ben nota monferrina che costituisce oggi motivo di rinnovamento folcloristico. Anche le leggende fanno parte delle tradizioni popolari. Si è mantenuta viva fino ai nostri giorni la leggenda intorno al personaggio di Giandoja, che viene raccontata in diverse versioni le quali tuttavia concordano tutte nel ritenere questa simpatica figura nativa di Callianetto. Si chiamava Girolamo della Grigna e possedeva uno speciale talento satirico che gli permetteva di far risaltare il lato comico delle persone e delle cose; la sua lingua era perciò abbastanza temuta. Egli, tuttavia, in determinate occasioni, nascondendo le risorse del suo ingegno, fingendo ignoranza, riusciva a meraviglia a fare il cretino (per esempio per non pagar dazio). Essendosi dunque la fama di questo Girolamo della Grigna diffusa in tutto il Piemonte, le autorità temendo che quel nome portasse, sia pure indirettamente, pregiudizio a quello di Girolamo Bonaparte, costrinsero il nostro Girolamo ad assumere altre generalità, ciò che quel bello spirito fece di buon grado e da quel recipiente, che portava sempre con sè, ben pieno di vino e che in dialetto si dice doja, si chiamò con un nome che era tutto un programma Gian dia doja cioè Giandoja. Particolarmente cara agli Astigiani fu questa leggendaria figura, insieme a tutto ciò che ad essa s'intitolava (come per esempio una piccola giostra di cavalli, detta giostra di Giandoja, perché portava alla cima una sua statuetta). Nella figura di Giandoja si assommavano molte caratteristiche del nostro popolo bonario, amante del buon vino, apparentemente un po' freddo, ma sempre pronto ad accendersi per ogni nobile causa. Il personaggio diceva di sé: El me nom a l'è Giandoja mè pais l'è Callianet el mè stemma a 1'è na duja el mè fido a l'è n'asnet; Am pias Ast, am pias Turin la polenta e 'l bicerin e per fé passé i sagrin pijo d'le sbòrnie con 'd bon vin. Parrebbe un gaudente, ma non era soltanto questo, se ha insegnato ai suoi concittadini a comportarsi bene in ogni occasione. Questi infatti, ricordandolo, così dichiaravano fieramente: Noj soma i fieuj 'd Giandoja noj soma i bogianen; ma guai se la testa an ròja, guai se 'l dì dla lòta el ven. Un'altra leggenda aveva al centro il galletto di bronzo che ancor oggi spicca sul tiburio della Chiesa di S. Secondo in Asti, detto anche il galletto del Santo; esso dovette far parte di uno dei tanti bottini riportati nelle fortunate imprese della forte Repubblica astigiana che seppe estendere il suo dominio su gran parte del Piemonte. Quel gallo divenne, con felice simbolismo, il vigile custode della libertà del nostro comune e doveva vegliare sui nostri concittadini che lottavano in difesa del loro onore. Un'altra leggenda circondava una chiesetta eretta in onore di S. Secondo, esattamente la Chiesetta di S. Secondo della Vittoria, che sorgeva fino ai primi decenni del nostro secolo, nella zona est del Pilone. La sua origine è questa: nel 1525, dopo la sconfitta di Francesco I, Asti dovette giurare sudditanza a Milano, dove mandò i suoi ambasciatori a rendere omaggio al luogotenente dell'imperatore Carlo V, Fabrizio Maramaldo. Ma costui che precedentemente era stato nella nostra città fiorente di tante ricchezze, pensò di venire ora da padrone per fare man bassa e infatti venne, ma trovò le porte della città chiuse. Pose il campo presso i bastioni detti di S. Pietro, bombardò le mura e minacciò rappresaglie; ma in quel frangente gli astigiani tutti si precipitarono a combattere con tutte le loro forze per cacciare l'usurpatore e riuscirono a fargli rimuovere le tende e a farlo ritornare a Milano. Si raccontò che nel momento cruciale di quella terribile battaglia comparve in campo a incoraggiare i suoi concittadini nientemeno che S. Secondo. Perciò a lui gli astigiani grati innalzarono una chiesetta nel luogo dove era stato visto. Varie come la vita sono le tradizioni di una gente che attraverso molte di esse, arricchite e adattate ai tempi, trova motivo per sopravvivere, che è in fin dei conti il nostro vivere, se le tradizioni da tanto lontano sono giunte fino a noi, per indicarci la loro arcana vitalità che è fonte perenne di vita. Apparentemente possono forse configurarsi come un cumulo di rovine, un campo di persone morte; ma noi sappiamo bene che è dai nostri morti che deriva la nostra vita.

Tre Bignole Cento Lire - edizioni SE.DI.CO. (Lorenzo Fornaca)

Dove:
Who:Enzo Aliberti edizioni SE.DI.CO., edizioni SE.DI.CO. (Lorenzo Fornaca)
Raccolta di “Racconti Valbelbesi”, come ha voluto simpaticamente sottotitolare lo stesso autore canellese
Dieci racconti della memoria, territoriali, pieni di ironia a volte bonaria, a volte trasgressiva e con alcuni passaggi anche piccanti. Ognuno dei racconti è preceduto da un breve cappello introduttivo e da un paio di proverbi della Valle Belbo che lo scrittore ha voluto porre come paletti a difesa dell’identità paesana. Inoltre, i testi sono arricchiti da una serie di immagini, alcune delle quali ormai storiche, che documentano il tempo passato e la metamorfosi dei luoghi.
Un cenno sul titolo: “Tre bignole cento lire”. Bignola è il termine dialettale che indica bigné, la pasta dolce rigonfia e piena di crema, panna, cioccolato, ecc. L’Autore ha tratto il titolo da un fatto da lui descritto ne “La casa rossa”, uno dei dieci racconti: un vecchio pasticcere sosteneva che i canellesi si dimostravano grandi lavoratori, innovatori, inventori, pionieri dell’industria enologica ma che in fatto di finanze valessero zero perché non possedevano lo spirito del commerciante, né tantomeno del mercante. A riprova delle sue convinzioni, un giorno il pasticcere espose nella sua vetrina un cartello provocatorio: Una bignola 30 lire, tre bignole 100 lire. Ebbene, a conferma della sua tesi, la maggior parte dei suoi clienti aveva ordinato 3, o multipli di 3 bignole a 100 lire, senza fare calcoli sulla effettiva convenienza. “Tre bignole cento lire” è quindi l’ironica definizione della personalità dei canellesi antichi.
Una preziosità: l’illustrazione di copertina è opera di Massimo Berruti di Azzurro Cielo, l’ex pluricampione italiano di palla a pugno, che ha disegnato Reste, l’omino volante dell’ultimo racconto, che vola attorno alla Torre dei Contini, mentre il retro copertina riporta una splendida Veduta aerea di Canelli e le sue colline.
14€

Una Regione a capotavola -

Dove: Piemonte
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Cinquantun grandi chef del Piemonte. Stelle, cappelli, punteggi da top ten. Gente che negli ultimi anni si è installata saldamente ai piani alti delle guide nazionali ed internazionali. Creativi che hanno un’idea precisa, forte, firmata della cucina, delle materie prime, del modo di farle diventare opere d’arte, di presentarle ed accompagnarle fino a trasformarle in un’esperienza sensoriale complessa ed appagante. Una Regione a Capotavola non è una super-guida ai ristoranti d’eccellenza del Piemonte. È una guida agli chef: la civiltà del gusto vista dall’atelier dei suoi artisti. Uno strumento inedito e prezioso per entrare nelle storie, nei segreti e nelle filosofie dei creatori di sapori. È naturale che, per raccontare i propri piatti, i maestri del gusto raccontino prima d’altro se stessi. Una Regione a Capotavola è anche per questo un invito ad andare sul territorio, in giro per il Piemonte. A scoprirli di persona.


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