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la Pasta fresca e secca nella tradizione di Langhe, Monferrato e Roero

ultimo aggiornamento: 03/01/2011

Cenni Storici

Pare che l?affascinante storia che attribuisce a Marco Polo il merito di aver introdotto la pasta in Europa e in Italia non abbia alcun fondamento. Vari documenti ? atti notarili, ricette mediche, e simili - provano infatti che il prodotto era ben conosciuto assai prima del fatidico 1292, anno in cui Marco Polo tornò a Venezia. In realtà è tanto inutile, e probabilmente impossibile, cercare di identificare un inventore della pasta, quanto lo sarebbe per il pane. Di fatto, gli ingredienti di base della pasta sono gli stessi delle prime focacce: acqua e farina. Quello che cambia è il metodo di cottura: contatto diretto con superfici o pietre roventi per gli antenati del pane, bollitura per la pasta ? e ricordiamo che anche la bollitura è uno dei sistemi di cottura più antichi. Nell?antica Grecia si consumava un cibo noto come làganon, termine che designava delle striscie di una sfoglia ottenuta impastando acqua e farina, e presso gli Etruschi il prodotto (probabilmente fatto col farro anziché col frumento) doveva essere ben conosciuto, visto che una celebre decorazione tombale del IV secolo a.C. mostra attrezzi ancor oggi in uso: il matterello, la spianatoia, la rotellina dentata. ?Una scodella di porri, ceci e lagane? era un piatto semplice, molto amato da Orazio, forse non troppo dissimile dalla nostra pasta e ceci. Di questa preparazione, ?povera? ma gustosa e nutriente, parla anche Apicio, autore dell?unico testo di cucina di epoca romana giunto integro fino ai giorni nostri. Vi è descritta, ad esempio, una preparazione per certi versi somigliante alle nostre lasagne e fatta alternando strati di laganum e di un intingolo con avanzi di carne o pesce (De re coquinaria IV, II, 15). In epoca successiva, le testimonianze si moltiplicano. Un geografo arabo del XII secolo parla di una località della Sicilia, da lui chiamata Tria, la cui economia si basava su un fiorente commercio di pasta modellata ?in forma di fili? ? praticamente, gli spaghetti. Ma anche i grandi letterati italiani di quei secoli ne parlano in vario tono ? entusiasta e gaudente il Boccaccio, polemico nelle sue invettive (non contro la pasta, ma contro il Papa) Jacopone da Todi. Quella pasta era solitamente cotta nel brodo, e condita con una spolverata di formaggio, pepe e poco altro. Ma come per molti generi e lavorazioni alimentari, anche per la pasta, nel frattempo universalmente diventata ?i maccheroni?, la rivoluzione avvenne in seguito alla scoperta dell?America, quando la diffusione del pomodoro portò ad una unione di sapori ormai proverbiale e indissolubile. La pasta diventa, in breve tempo, un alimento popolare, economico, venduto dagli ambulanti agli angoli delle strade e consumato seduta stante. Tanto popolare che ?maccheroni? diventa anche l?appellativo, non proprio lusinghiero, affibbiato agli italiani identificati come rozzi e ignoranti divoratori di pasta ? mangiata con le mani, come mostrano varie incisioni e dipinti d?epoca. Proprio per questo motivo i maccheroni non entrano nelle mense dei nobili se non dopo l?invenzione, all?inizio del XIX secolo, della forchetta a quattro rebbi. Va comunque ricordato che fino al Settecento la pasta non ebbe una collocazione ben precisa nel menù; non era ben chiaro, cioè, se la si dovesse classificare come pietanza dolce o salata, tanto che era prassi normale cuocerla nel latte e dolcificarla con miele, cannella e spezie varie. Solo nel XVIII secolo la pasta divenne definitivamente un ?primo? abbinato a sughi di vario genere. La pasta di cui si è parlato finora è la pasta secca, fatta in genere con farina di grano duro e acqua. Accanto a questa, si è sviluppata anche una tradizione di pasta fresca che, soprattutto nell?Italia settentrionale, è fatta in genere con farina di grano tenero e può contenere uova, la cui presenza era tradizionalmente un lusso da riservare alle occasioni speciali. Con la pasta fresca all?uovo si fanno tagliatelle e maltagliati, e soprattutto si fa la sfoglia che viene variamente farcita per realizzare la pasta ripiena. In Italia, il connubio fra sfoglia e ripieno ha dato risultati diversi, ma tutti decisamente di gran pregio: dai generici ?ravioli? e ?tortelli? alle varie specialità locali, nel tempo sono state create infinite specialità diverse per forma e sapore.

In Piemonte

In Piemonte la pasta fresca si è trasformata in tajarìn, cioè tagliolini (delle tagliatelle particolarmente sottili); quella ripiena in agnolotti e raviole del plìn. Va tuttavia precisato che, se la produzione di pasta secca è ormai da molto tempo prerogativa di aziende specializzate grandi e piccole, quella di pasta fresca e ripiena solo in anni relativamente recenti (e soprattutto a partire dal secondo dopoguerra) si è sviluppata come attività professionale legata a pastifici, o a piccoli laboratori che producono e commercializzano direttamente le varie specialità. Tradizionalmente, infatti, la pasta fresca era la più tipica delle produzioni casalinghe, e anche i tajarin, gli gnocchi o gli agnolotti gustati al ristorante o in trattoria erano generalmente fatti a mano. Ed è questo il genere di sapori che il pastaio cerca di riprodurre, anche se si serve di attrezzature che gli consentono una produzione più rapida e quantitativamente significativa, e l?invenzione di nuovi formati. Di questa produzione familiare riteniamo interessante dare una breve panoramica: non solo perché, come si è detto, essa rimane il riferimento qualitativo e il richiamo commerciale principale di quelle professionali, ma perché è portatrice di valori culturali il cui significato non è secondario rispetto a quello gastronomico. Tempo fa, un cuoco alla moda ha scritto che gli agnolotti erano il tipico piatto del lunedì, quello che si preparava per riciclare gli avanzi di carni e verdure del giorno festivo. Un?affermazione, a nostro avviso, per lo meno superficiale. Con gli avanzi, è vero, si faceva ? si fa - un po? di tutto. Ma ridurre gli agnolotti a una dimensione di puro riciclo non è possibile. Perché da sempre in Piemonte l?agnolotto è protagonista delle grandi occasioni ed evoca non già la necessità di rendere appetibili e bastevoli gli avanzi, ma l?opulenza degli arrosti, delle spezie, della pasta fresca e dei condimenti, un mondo di profumi e di sapori, immagini di festa e convivialità. Non a caso, infatti, gli agnolotti sono il piatto natalizio per antonomasia, quello da portare trionfalmente in tavola dopo che gli antipasti hanno doverosamente solleticato le papille e creato la giusta atmosfera di attesa e anticipazione. Anche se le famiglie sono meno numerose di un tempo, e sono ormai scomparse le grandi cucine di campagna affollate da nonne e zie che ai fornelli parevano aver votato la loro esistenza, gli agnolotti conservano, più di altri piatti, un fascino che ha molto a che fare con la loro articolata preparazione. Per una bambina, essere ammessa a partecipare a qualche fase era un po? come essere iniziata ai sacri misteri della cucina, significava cominciare un lungo addestramento il cui risultato finale non sarebbe stato solo la capacità di assemblare degli ingredienti, ma l?assimilazione di una cultura culinaria. È evidente che dire ?agnolotti? vuol dire parlare di forme, sapori, ripieni e persino nomi diversi. Già il termine (?agnolotti?, ma anche ?agnellotti/anellotti? e quindi agnoli, anolini e derivati) sembrerebbe indicare una forma originaria non quadrata ma rotonda, in quanto la pasta anticamente era ritagliata usando un anello metallico. Fra gli agnolotti, in Piemonte regnano sovrani i ?gobbi?, così chiamati per via di quella montagnola di ripieno che, avvolta nella sfoglia, produce il caratteristico ingobbimento della forma. E poi ci sono le raviole del plìn, che non sono ?ravioli? perché, come dice Giovanni Goria, ?L?agnolotto è femmina? è bello, terso, tenero come una ragazza piemontese di 23 anni, dai capelli castano miele? una pulita promessa di dolcezza e di pace ?è la cosa più buona che ci sia?. Etimologicamente, per ?raviola? si è ipotizzata la derivazione da un antico graviola, cioè ?gravida?, ma non è del tutto da escludersi un più prosaico raviolà, che dà l?idea del ripieno sensualmente e giocosamente arrotolato, avvoltolato nella sfoglia. Le raviole, che, sempre secondo Goria, sono un?invenzione più recente e ?ristorantiera?, sono più piccole, e si caratterizzano appunto per il plìn, quel pizzicotto che le chiude a caramella ed è poi sigillato dal passaggio della rotella tagliapasta. Quanto ai sapori, una volta accettata la distinzione canonica fra gli agnolotti ?di grasso?, cioè quelli il cui ripieno contiene carne, e agnolotti ?di magro?, che di carne non ne hanno ed erano anticamente riservati ai periodi di quaresima o di convalescenza, le possibilità sono quasi infinite. Questo si applica ovviamente anche ai condimenti, pur se filologicamente le raviole si consumano in una scodella, nel vino rosso, oppure scondite, adagiate semplicemente su un tovagliolo di lino.

Testo di Lucilla Cremoni tratto da ? Artigianato Alimentare? ? Regione Piemonte ? Michelangelo Carta
fonte: Regione Piemonte
Con la LR21/97 la Regione Piemonte assegna un ruolo importante all'Artigianato Artistico e Tipico di Qualità per salvaguardare e rilanciare lavorazioni artigianali di antico prestigio che, pur nel rispetto della tradizione, possano reinterpretare il passato attraverso le tendenze culturali ed estetiche del presente.

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