event, prodotti o luoghi CAP o indirizzo

Il Monferrato – di Gianluigi Bera

Indirizzo: Monferrato

Aggiungi ai Preferiti

Voto:

Invia mail ad un amico

TUTTI I SUOI LIBRI SU AMAZON.IT

l’esultante di castella e vigne suol d’Aleramo…

può sembrare banale e ovvio cominciare a parlare del Monferrato partendo dal celebre verso carducciano, che a forza di essere ripetuto e strombazzato in ogni occasione ha finito col diventare stucchevole e trombonesco; eppure, al di là della sua potenza evocativa, costituisce ancora oggi un parametro utile per capire come questa terra straordinaria abbia sempre colpito l’immaginario collettivo, non soltanto a livello nazionale. Anche l’Astesana, le Langhe, il Roero, il Canavese, tanto per rimanere in Piemonte, sono da secoli “esultanti” di vigne e punteggiate di castelli, ma non hanno Aleramo; non hanno, come il Monferrato, un legame altrettanto forte con il mito di un medioevo feudale e cortese incarnato e fatto storia vera dalla figura dei dinasti che lo governarono.

Certo, si tratta di un mito rinverdito e rilanciato dal revival neomedievale dell’Ottocento, di cui Carducci fu appassionato cantore, ma affermatosi già in epoche lontanissime e non sospette ad opera di trovatori e poeti di tutta Europa, rafforzato e propagandato da un’intera civiltà che aveva eletto la terra monferrina a luogo ideale dell’aristocratica proesse, dove si rinnovava e perpetrava il sogno di Artù e dei suoi cavalieri.

Il Monferrato non è, come spesso si fa finta di credere una “espressione geografica”, ma è una delle “piccole patrie”  piemontesi nata dal connubio della Storia e del Mito.

Genesi del territorio
Bisogna, ancora una volta, partire da Aleramo, perché nella sua persona la Storia ed il Mito si fondono. La prima ci dice che alla fine del X secolo della nostra era, già potente funzionario dell’Imperatore Ottone I, fu nominato capo della “marca di Liguria Occidentale”, ed ebbe in concessione vastissimi possedimenti nei deserta loca tra Tanaro, Orba ed il Mare. Il secondo ci parla della leggenda, antichissima e già nota nel Trecento, secondo cui il giovane Aleramo si vide promettere dall’Imperatore tanta terra quanta sarebbe riuscito a percorrerne  in tre giorni di galoppo; il suo destriero perse un ferro, e per riparare al danno e riprendere la corsa lui dovette servirsi di un mattone, da cui “mon-ferrato”.

In realtà i discendenti di Aleramo presero il nome dall’area dove concentrarono maggiormente la loro politica di espansione dinastica, già definita “Monferrato” prima del loro avvento, sebbene limitata ad un territorio esiguo  situato secondo alcuni tra il Po ed il Tanaro nei pressi di Valenza, secondo altri tra Chivasso e Trino. Il cognome della dinastia, “di Monferrato” appunto, passò in seguito a designare la vasta compagine statale  da  essa assemblata. Se poi l’antica area originaria si fosse chiamata così per via del farro che vi si coltivava ( da cui Mons pharratus), o per il fatto di essere particolarmente fertile (da cui Mons ferax) o ancora perché  era costellata  di insediamenti abitativi longobardi chiamati “Fare” ( da cui Mons Faratus) rimane unicamente spunto per dibattiti eruditi.

In epoca medievale i marchesi di Monferrato riuscirono non solo a coagulare un amplissimo territorio, ma anche a conferirgli una solida identità e soprattutto un enorme prestigio ideologico attraverso l’eco delle loro gesta e della loro potenza. Il loro sogno di dominare tutta l’area collinare tra Po e Appennino, conferendole unità politica ed amministrativa, non riuscì a realizzarsi perché erano troppi i rivali che perseguivano le stesse ambizioni: Asti in primo luogo, i principi d’Acaia, i Savoia ed altri ancora. A partire dal XVI secolo si estinsero definitivamente i discendenti di Aleramo (gli ultimi regnanti di questa dinastia furono i Paleologi provenienti da Costantinopoli, il cui capostipite Teodoro era figlio di Iolanda ultima erede degli Aleramici) e lo stato monferrino passò ai Gonzaga di Mantova. Signori ricchi, potenti e lontani, se da una parte spremettero come un limone le terre di nuovo acquisto con una feroce pressione fiscale, dall’altra ne garantirono a lungo l’autonomia rispetto al resto del Piemonte, o meglio rispetto ai Savoia dalla forte politica accentratrice. Il Monferrato riuscì a conservare la sua prerogativa di terra non piemontese anche dopo la definitiva annessione al Regno di Sardegna, e la sua integrità territoriale fu perpetrata con l’istituzione delle antiche province di Casale e di Acqui, che ne ricalcavano esattamente i confini e gli àmbiti di influenza. Nel 1935 si ripristinò la vecchia provincia di Asti soppressa a metà Ottocento, che invece di limitarsi al retaggio storico e tradizionale dell’antica Astesana fagocitò alcune porzioni moralmente significative delle terre Monferrine.  Da allora l’area definitivamente smembrata assunse un’identità informe ed ameboide, un ectoplasma indefinito dove la realtà della sua storia millenaria veniva puntualmente disconosciuta e disattesa dalla mancanza di politiche unitarie volte alla valorizzazione territoriale. La colpa di ciò va ascritta in parte all’Astesana, che accettò acriticamente la fasulla identità monferrina cucitale addosso nel dopoguerra da amministratori poveri di spirito; in parte si può assegnare alla passività del Monferrato, che ha sempre trascurato fino a tempi recentissimi la tutela e la rivendicazione delle proprie  specificità . La zonazione vitivinicola attuata agli inizi degli anni ’70  per delimitare le aree a denominazione d’origine controllata peggiorò le cose, facendo un unico gran minestrone di territori, tipicità, storia, tradizioni, e fornendo ad esso un’identità intercambiabile che alla fin fine privava i termini “Asti” e “Monferrato” di qualsiasi riconoscibilità.

Oggi le cose stanno cambiando, e sembra si sia capito come la valorizzazione del territorio e delle sue produzioni debba obbligatoriamente passare attraverso il recupero di un’identità forte e decisa. Rimane tuttavia ancora irrisolto e limitante il problema dell’unità di azione e di programmi, risolvibile solo tramite organismi estranei alla logica delle amministrazioni provinciali.

Il paesaggio
“Ivi non monti, ma bei colli et culti,
fertili, aprici sono et ben distinti,
l’aratro patienti, ornati et fulti
de vite et de fructifer arbor cinti. Sì che per lor beltade han dicto multi
da Dio e da Natura esser depinti.

A piè dei colli son valli et belli
et verdi prati et placidi ruscelli.
Sì che qualunque ben misura et vede
di questa patria ogni suo colle et piano
dirà di Vener bella esser la sede
et quella coltivar con propria mano.
Et chi ben pensa a quello che possiede
il qual è necessario al victo umano
dirallo esser di Bacco albergo fido et di Cerer verace ostello, e nido.”
Con queste parole il casalese Galeotto del Carretto, non disprezzabile poeta del Rinascimento, delineava nel 1493 il ritratto di un paesaggio che incarna tuttora l’essenza stessa del Monferrato. Colline, innanzitutto, segnate dall’attività e dalla presenza dell’uomo in maniera profonda ma armoniosa. Cerere e Bacco, i campi e la vigna, oggi come cinque secoli fa si alternano senza mai prendere il sopravvento. Contrariamente all’Astesana o a certe zone delle Langhe, quest’area non ha conosciuto la fittissima dispersione dell’insediamento rurale; per ragioni storiche, economiche e sociologiche i paesi sono rimasti accentrati, mentre le abitazioni contadine sono prevalentemente organizzate in piccole frazioni compatte o in vaste ma ben distanziate “cascine” plurifamigliari.  Il territorio ha così potuto conservare un’integrità ambientale che in molte sue parti raggiunge un’inimitabile perfezione, complice anche la levigata dolcezza dei rilievi collinari e l’alternanza quasi costante della vigna al campo, al prato, alla macchia di vegetazione spontanea che colonizza i versanti più impervi o gli scoscendimenti delle ripe. Si può ben capire come il solito Giosuè Carducci, formidabile coniatore di slogan che ancora oggi fanno la gioia degli assessorati al turismo, avesse  definito queste terre “..una Toscana senza cipressi”.

La loro forza sta nell’inconfondibile omogeneità, contraddistinta da “denominatori comuni” profondamente caratterizzanti ed inequivocabili. Al primo posto l’edilizia tradizionale che impiega largamente il tufo d’estrazione locale, un’arenaria a grana fine e compatta dalle tenui tonalità color avorio antico. Questo materiale, spesso alternato al cotto in piacevoli giochi cromatici, fu a lungo utilizzato negli edifici rurali e civili, e costituisce ancora oggi un inconfondibile marchio visivo della “monferrinità”. Altro elemento di tipicità locale è rappresentato dalle monumentali parrocchiali tardo-settecentesche, sorte quasi sempre in posizioni dominanti ed in forme grandiose soprattutto ad opera del grande architetto casalese Ottavio Magnocavallo. Più dei castelli, che pure vi sorgono numerosi e non di rado estremamente scenografici, esse sono protagoniste assolute nella sky line di questi luoghi. Infine, soprattutto in àmbito artistico e culturale, il Monferrato si identifica nell’opera del suo più celebre pittore: Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, vissuto tra il 1568 ed il 1625. Dotato di prodigiosa abilità tecnica, seppe incarnare lo spirito e l’epoca della Controriforma con una vena devota e poetica di stampo tardo-manierista. I suoi quadri pervasi da tonalità delicate e brillanti sono opere “..di lieve ed affabile poetica religiosa..”, ed affollano tutte le chiese monferrine, dalla capitale ai borghi più nascosti. La sua produzione godette sempre di grandi apprezzamenti ed onori anche dopo il variare dei gusti e delle committenze, quasi che il popolo di queste colline vi ravvisasse l’emblema visivo della propria identità.

Tweet
precedente successivo

1 Commento

  1. Giggiao, lunedì 25 novembre 2013 alle 19:25

    Trovo sempre un grande piacere a leggere articoli di una persona così erudita sul territorio astigiano.

    Rispondi

Inserisci la tua recensione

Vota cliccando sulle stelle sotto: