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Cesare Pavese

Indirizzo: Santo Stefano Belbo, Fondazione Cesare Pavese, Piazza della Confraternita 1

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Telefono: + 39.0141.849.000 / 730 / 894

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Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino 27 agosto 1950. Scrittore e poeta, traduttore e saggista.

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Nasce a Santo Stefano Belbo (CN), dove la sua famiglia, di origini torinesi, trascorre il periodo estivo presso la cascina di San Sebastiano. In paese conosce Pinolo, il più piccolo dei figli del falegname Scaglione, che rimarrà sempre uno dei suoi più cari amici e che descriverà in alcune sue opere.

Purtroppo la sua fanciullezza non fu felice: la madre, per problemi di salute, deve affidarlo a balia, perde tre fratelli piccoli e a sei anni rimane orfano del padre. La madre subentra nell’allevare i figli e, attraverso una educazione rigorosa, accentua il carattere introverso e instabile del piccolo Cesare.
Legge D’Annunzio e Vittorio Alfieri, che lo colpisce per la forza di volontà, e diventa amico di Tullio Pinelli. Suo insegnante fu il gobettiano e antifascista Augusto Monti, che lo instrada ad un metodo di studio rigoroso.
Si iscrive all’Università di Torino, Facoltà di Lettere, continua a scrivere e intanto studia l’inglese, appassionandosi a Walt Whitman e alla letteratura americana. Di spicco le sue amicizie, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio e Giulio Einaudi, che diventeranno importanti letterati antifascisti. Negli anni seguenti continua a studiare, scrive versi e inizia a tradurre alcune opere americane. Nel 1930 si laurea e, purtroppo, nello stesso anno perde la madre; rimane ad abitare nella casa materna insieme alla sorella Maria, mantenendosi con l’insegnamento e le traduzioni. Nello stesso periodo scrive la sua prima poesia “lavorare stanca”, alcuni racconti e vari saggi. Si laureò con una tesi sul poeta americano Walt Whitman. Per poter lavorare nelle scuole pubbliche è costretto ad iscriversi al partito nazionale fascista, intanto inizia la sua tormentata storia sentimentale con Tina Pizzardo. Oltre all’Antologia americana curata da Elio Vittorini, tradusse classici della letteratura da Moby Dick di Melville, nel 1932, ad opere di Dos Passos, Faulkner, Defoe, Joyce e Dickens. La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli anni ’30, il sorgere di un certo mito dell’America. Nel 1934 inizia la sua collaborazione con la Casa editrice Einaudi e dirige per un anno la rivista “la Cultura”, entrambe di proprietà dell’amico Giulio. Finalmente riesce a pubblicare alcune poesie. L’anno successivo, innocente, é arrestato per motivi politici e condannato a tre anni di confino in Calabria. Riesce a farsi condonare due anni e, verso la fine del 1936, può tornare a Torino, dove cresce sempre più lo spirito antifascista di Pavese. In questo periodo scrive il suo primo romanzo breve, Il carcere, tratto dalla sua esperienza del confino.
Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e prima d’allora raramente affrontati, come l’idealismo ed il marxismo, inclusi quelli religiosi, etnologici e psicologici.  Le poesie di Lavorare stanca (1936) furono fortemente innovative e, insieme alle sue opere di narrativa, attrassero un vasto pubblico. Mentre l’Italia entra in guerra, Pavese si innamora di Fernanda Pivano e le dedica alcune poesie: Mattino, Estate e Notturno. Purtroppo anche questa storia sarà una delusione, lei rifiuta per ben due volte di sposarlo e nel 1945 tutto finisce definitivamente. Intanto Pavese continua a scrivere, e con la pubblicazione di Paese tuoi sembra che la critica inizi ad accorgersi delle sue doti letterarie. Dopo che Torino viene bombardata, per motivi editoriali della Einaudi, Pavese si trasferisce a Roma. È li che gli giunge la cartolina di precetto alle armi ma, per motivi di salute, dopo sei mesi ottiene il congedo e torna a Torino. Quando nel 1944 Torino é occupata dai tedeschi, Pavese si rifugia a Serralunga di Crea presso il Collegio Convitto dei padri Somaschi. Dopo la liberazione torna a Torino e rimane molto colpito dalla morte dei tanti amici che avevano combattuto per la libertà: Leone Ginzburg, Giamie Pintor, Luigi Capriolo. Il suo rimorso sarà sempre quello di non aver lottato, come altri, per i valori in cui credeva. Forse per redimersi, poco dopo Pavese si iscrive al Partito comunista e inizia a collaborare con “L’Unità”, dove conosce Italo Calvino. Verso la fine del 1945 ritorna di malavoglia a Roma, sempre per motivi di lavoro, e ricade nella malinconia anche, forse, per l’ennesima delusione amorosa. Ritornato a Torino, scrive La casa in collina e Il diavolo sulle colline. Ma è nel 1949, dopo una settimana a Santo Stefano Belbo con l’amico di sempre Pinolo Scaglione (Nuto), che nasce una delle opere più importanti di Pavese: La luna e i falò. La critica apprezza molto le sue opere tanto che nel 1950 vince il premio Strega per La bella estate. Purtroppo ciò non può alleviare le delusioni politiche e amorose di quegli anni, che lo fanno sprofondare in una sempre più forte depressione. La delusione amorosa per la fine del rapporto sentimentale con l’attrice americana Constance Dowling – cui dedicò gli ultimi versi di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi – ed il disagio esistenziale lo indussero al suicidio il 27 agosto del 1950, a 42 anni, in una camera dell’albergo Roma, a Torino; al suo fianco poche parole: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Per tutta la vita aveva cercato di vincere la solitudine interiore, sentita come condanna e vocazione; il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse, in un libro intitolato non casualmente Il vizio assurdo, il malessere esistenziale che sempre aveva avvolto la vita dell’intellettuale piemontese.

I Luoghi Pavesiani

Moncucco
Le Langhe non si perdono”, confida il cugino de I mari del sud salendo la collina di Moncucco, punto panoramico di Santo Stefano Belbo da cui si domina tutta la valle del Belbo. “Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Dalla vetta si scorge nelle notti serene il riflesso del faro lontano di Torino”.
Il faro che si scorge in lontananza è la Vittoria alata che regge un lume intermittente (alta 18 metri e mezzo) con epigrafe di Gabriele D’Annunzio, dono di Giovanni Agnelli nel 1928, poco prima della poesia che apre la raccolta di Lavorare stanca.

Santo Stefano Belbo
L’avventura esistenziale di Pavese, e di molti suoi personaggi inizia a Santo Stefano Belbo, grosso paese di fondovalle, dove le estreme propaggini delle Langhe confinano con le prime colline del Monferrato. “Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome – ripeto – sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là”.

Casa natale, via Cesare Pavese 20
“Immagini primordiali … mi si sono dischiuse in questi luoghi, anzi in questo luogo, a un certo bivio dove c’è una gran casa, con un cancello rosso che stride, con un terrazzo dove ricadeva il verderame che si dava alla terra e io ne avevo sempre le ginocchia sporche” (1942 – Cesare Pavese a Fernanda Pivano)
La “gran casa”, dove è nato il 9 settembre 1908  e in cui i genitori trascorrevano le villeggiature estive, è un po’ fuori porta, sullo “stradone” per Canelli. L’architettura della casa, in cui non c’è più l’originario giardino, si discosta da quella tradizionale contadina, denota già un gusto da piccola borghesia provinciale trapiantata in città. Da molto tempo non appartiene più ai Pavese; fu venduta in seguito alla prematura morte del padre e ha cambiato, da allora, diversi proprietari che l’hanno variamente trasformata. Il paesaggio dell’infanzia, quel mondo fantastico di vigne, rive e colline, perduto con la vendita della casa ma pensato e sognato dalla città, fu il vivaio di materiali cui lo scrittore attinse poi per la sua officina letteraria. Oggi è un museo di ricordi dello scrittore (www.centropavesiano-cepam.it) . Partendo dal salone, la “grande cucina”, ora adibito a spazi espositivi, si accede al piano superiore. Nelle stanze sono sistemate bacheche e vetrine che conservano le sue opere e le numerose traduzioni dei suoi testi nelle varie lingue del mondo. Appese alle pareti vi sono fotografie che presentano lo scrittore nei vari momenti della sua vita, ma anche manoscritti e testimonianze di personaggi che lo hanno conosciuto e frequentato. Molto apprezzata è la raccolta di tesi di laurea sulla sua figura e opera. Le camere ospitano dipinti e sculture ispirati a luoghi, personaggi e miti pavesiani. Vi è inoltre un salone multimediale che permette lo svolgimento di varie iniziative. Un abbaino favorisce la visuale sui quattro lati delle colline che circondano Santo Stefano Belbo. All’interno sono sistemate diverse fotografie dei luoghi pavesiani con le didascalie tratte da La luna e i falò.
Sulla facciata che dà sullo “stradone”, adiacente al cancello di ingresso, è sistemata una lapide con la scritta:
“La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti” (“Il mestiere di vivere”). La casa si affaccia su un ampio cortile-giardino circondato da siepi e da alberi. In esso è stato collocato un monumento in bronzo di Pavese con la frase: “Corse la strada bianca lunga fin presso la casa dov’era nato e si era sognato poeta” (dal racconto giovanile Il cattivo meccanico).

Casa di Nuto, Località Piana
La casa-laboratorio di Nuto si trova poco prima della Mora, per la sua posizione, affacciata sulla strada per Canelli, era un po’ una finestra aperta sul mondo. Tutti erano obbligati a passargli davanti: a piedi, in bicicletta, con il carro e i suoi buoi, carrozze padronali, maestrine col parasole ecc., con tutti c’era qualcosa da dire, per ognuno il discorso tagliato su misura.

La Mora
Annunciata da maestosi pini, che contrastano con i pochi alberi da frutta del casotto di Gaminella, e da un tripudio di fiori, ”nella grassa piana oltre il Belbo” c’è la Mora. Qui è subito tutt’altra vita. Nella grande casa, vivevano insieme al padrone e alle sue figlie le serve, i servitori, i braccianti: “La Mora era come il mondo…Era un’America, un porto di mare. Chi andava, chi veniva, si lavorava e si palrava…” I raccolti erano abbondanti e davano da mangiare a tutti, oltre a garantire una certa agiatezza economica alla famiglia padronale. I terreni anche erano molto estesi: “…le terre della Mora andavano dalla piana del Belbo a metà collina e io, avvezzo alla vigna di Gaminella dove bastava Padrino, mi confondevo, con tante bestie e tante colture e tante facce”.

La collina di Gaminella
La collina di Gaminella è dunque una delle due facce, con il Salto, dell’universo de La luna e i falò, circondata da un alone di mistero, impossibile da conoscere completamente per la sua grandezza. È certamente la collina più imponente del paesaggio santostefanese, “una collina come un pianeta”, talmente lunga da sconfinare nel territorio di Canelli, fittissima e varia è la sua geografia “tutta vigne e macchie di riva”, dove però predomina l’incolto, il selvatico, la riva e il bosco rispetto al coltivato, che non è solo vigna ma noccioleto, campo, prato.

La palazzina del Nido
…rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina” (del salto), domina, con la sua inconsueta architettura, tutta la valle. Si trova sotto il territorio di Canelli e la sua ubicazione, di difficile accesso, ha preservato la casa e i terreni circostanti da ogni trasformazione. È certamente uno degli itinerari più suggestivi che conduce fino a Canelli passando attraverso la frazione di Sant’Antonio (da Pavese chiamata Sant’Antonino). Una sera Anguilla accompagna con il biroccio le sue emozionantissime padroncine ad una festa al Nido e la casa, vista con gli occhi stupiti del povero servitore, diventa il luogo inafferrabile del sogno e della meraviglia.

La collina del Salto
Quella da Pavese chiamata il Salto è la collina speculare a Gaminella che costeggia la strada per Canelli. Ma è diversa da Gaminella, più aspra, più secca, meno rigogliosa: “…la collina del Salto, oltre il Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E giù in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliata da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte”.

Il Belbo
Il torrente Belbo, nelle cui acque allora immacolate si andava a pescare e a fare il bagno, separa nettamente le due colline di Gaminella e del Salto, con in mezzo la piana delimitata da lunghe file di pioppi (che Pavese chiama con un dialettismo albere). Una passerella che oggi non c’è più metteva in comunicazione i due mondi: “Traversammo l’alberata, la passerella di Belbo, e riuscimmo sulla strada di Gaminella in mezzo alle gaggie”.

Il treno
Solo il treno con le vecchie locomotive a vapore, ormai in disuso, interrompe il ritmo di questo mondo chiuso tra le colline, dove il tempo si misura secondo il ritmo delle stagioni. Il fischio del treno sulla ferrata “che sera e mattina correva lungo il Belbo”, porta con sé la curiosità del mondo oltre le colline e l’inquietudine della fuga, fa pensare “a meraviglie, alle stazioni e alle città”, interrompe l’andamento statico e contemplativo del romanzo.

La stazione
La stazioncina di Santo Stefano Belbo, da dove arrivano e partono i personaggi pavesiani, è ancora la stessa coi suoi binari. Solamente non è più in funzione ed è circondata da un senso penoso di trascuratezza, come un luogo fuori dal tempo, un relitto, una nave arenata lasciata in abbandono.

L’ albergo dell’Angelo
Quando, ne La luna e i falò, Anguilla torna al paese dopo tanti anni soggiorna presso l’Albergo dell’Angelo, nella piazza centrale del paese. A Santo Stefano Belbo, prima della guerra, esisteva realmente un albergo dell’Angelo, nella parte vecchia del paese, ma quello in cui Pavese soggiornava era La Posta, il cui balcone dà sulla piazza principale, cui viene attribuito il nome dell’altro. Da questo balcone Anguilla osserva la festa patronale di San Rocco e nel racconto La langa si propone nello stesso luogo la stessa situazione “Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese, dove più nessuno mi conosceva…

La chiesa
Su un’altra piazza del paese c’è la chiesa, talmente grande da sembrare una cattedrale, sulla cui scalinata, nel clima arroventato del dopoguerra,il parroco pronuncia un infuocato discorso contro i partigiani e i comunisti, in seguito al ritrovamento di due morti repubblichini. Anche Anguilla vi assiste: “Così sotto quel sole, sugli scalini della chiesa, da quanto tempo non sentivo più la voce di un prete dir la sua. E pensare che da ragazzo quando la Virgilia ci portava a messa, credevo che la voce del prete fosse qualcosa come il tuono, come il cielo, come le stagioni – che servisse alle campagne, ai raccolti, alla salute dei vivi e dei morti”.

La torre
Il Cavaliere era il figlio del vecchio Cavaliere, che ai miei tempi era il padrone delle terre del Castello e dei diversi mulini e aveva perfino gettato una diga nel Belbo quand’io ancora dovevo nascere… Dalla piazza si vedeva perfino la collinetta dove aveva i suoi beni, dietro il tetto del municipio, una vigna mal tenuta, piena d’erba, e sopra, contro il cielo, un ciuffo di pini e di canne”. Si tratta dei terreni circostanti i ruderi del vecchio castello medievale, sopra il centro storico del paese, e di cui rimanere in piedi solamente la torre che domina il centro abitato di Santo Stefano Belbo.

La luna
Anguilla in altre sere prende il fresco dal poggiolo dell’albergo, osserva le colline sopra i “quattro tetti” del paese e la luna, altissima, irraggiungibile: “Ho rivisto la luna d’agosto tra ontani e canneti/sulle ghiaie del Belbo e riempirsi d’argento/ogni filo di quella corrente./Sapevo che intorno/tutt’intorno s’alzavano le grandi colline…”

Il cimitero
Il 7 luglio 2001 i resti di Cesare Pavese vengono trasferiti, con il consenso dei familiari (le nipoti Maria Luisa e Cesarina Sini), nel cimitero di Santo Stefano Belbo. La lapide sotto cui riposa lo scrittore è fatta in pietra di langa e reca la scritta “Ho dato poesia agli uomini”.

Canelli
Vista da Pavese come porta del mondo, luogo obbligato dove passare per accedere a spazi lontani, alla ricerca di un nuovo futuro per realizzare i propri sogni, ma  anche assaggio di quello che può essere una città: soldi, peccato, fascisti.
Adesso non m’importava più se di là da Cassinasco non avrei visto il mare. Mi bastava sapere che il mare c’era, dietro discese e paesi, e pensarci camminando tra le siepi. Ci pensai tutto il pomeriggio, perché la collina è quasi piana e uno che guardi crede sempre di arrivare e non c’è mai. Terrazze, giardini e balconi se ne vedevano a ogni svolta, e io in principio li guardavo, specialmente le piante che avevano una foglia o un colore mai visto. Era un’ora, quella, che nessuno passava, solo qualche biroccio. Fermandosi, di là dalle siepi si sentiva la vigna e si vedevano le cane: è questa la bellezza di Canelli. Sembra di essere lontano, in un paese diverso, e la collina non è più collina, anche il cielo è più chiaro, come quando fa sole e piove insieme, ma la campagna la lavorano e fan l’uva come noi.
da “Racconti“, vol. II, “Il mare

Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città – chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo l’altr’anno c’era venuto col carro un ragazzo a vender l’una assieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo. M’accorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era una lavoro che facevo anch’io – di qui partiva la strada che passava per Genova e portava chi sa dove.
da La luna e i falò

 

Bibliografia:

  • Poesie giovanili, a cura di Attilio Dughera e Mariarosa Masoero, Einaudi, Torino 1989 (edizione fuori commercio).
  • Lavorare stanca, (poesie), Solaria, Firenze 1936; ed. ampliata con le poesie dal 1936 al 1940, Einaudi, Torino 1943.
  • Notte di festa (racconti), raccolta postuma, Einaudi, Torino 1953.
  • Il carcere, Einaudi, Torino 1949 (nel volume, comprendente anche La casa in collina, dal titolo Prima che il gallo canti).
  • Paesi tuoi, (romanzo), Einaudi, Torino 1941.
  • La bella estate, Einaudi, Torino 1949 (nel volume anche Il diavolo sulle colline e Tra donne sole).
  • La spiaggia, (romanzo) nella rivista “Lettere d’oggi”, n. 7, Roma 1941; poi in volume, Lettere d’oggi, Roma 1941; nuova edizione postuma, Einaudi, Torino 1956.
  • Feria d’agosto, (racconti), Einaudi, Torino 1946.
  • Racconti (frammenti di racconti e racconti inediti, in aggiunta a quelli di Notte di festa e di Feria d’agosto); raccolta postuma, Einaudi, Torino 1960.
  • La terra e la morte (9 poesie) nella rivista “Le tre Venezie”, n. 4-5-6, Padova 1947; nuova edizione postuma, in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino 1951; compreso anche in Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1962.
  • Dialoghi con Leucò, (racconti – conversazioni a due tra personaggi mitologici), Einaudi, Torino 1947.
  • Fuoco grande (scritto a capitoli alterni in collaborazione con Bianca Garufi); pubblicato postumo, Einaudi, Torino 1959; incompiuto.
  • Il compagno, romanzo, Einaudi, Torino 1947.
  • La casa in collina, Einaudi, Torino 1949 (in Prima che il gallo canti).
  • Il diavolo sulle colline, Einaudi, Torino 1949 (in La bella estate).
  • Tra donne sole, Einaudi, Torino 1949 (in La bella estate).
  • La luna e i falò, romanzo, Einaudi, Torino 1950.
  • Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, (10 poesie), pubblicate postume insieme a La terra e la morte, nel volume dal titolo omonimo, Einaudi, Torino 1951; comprese anche nel volume Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962.
  • Il diavolo sulle colline – Gioventù crudele (due soggetti cinematografici), in “Cinema nuovo”, settembre-ottobre 1959.
  • La letteratura americana e altri saggi, saggi e articoli 1930-1950, Einaudi, Torino 1951.
  • Poesie del disamore e altre poesie disperse, (comprende oltre a Poesie del disamore e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, le poesie escluse da Lavorare stanca, poesie del 1931‑1940 e due poesie del 1946), Einaudi, collana “Nuovi Coralli”, Torino, 1962.
  • Poesie edite e inedite, (tutte le poesie di Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, più 29 poesie inedite); pubblicato postumo, Einaudi, Torino 1962.
  • Otto poesie inedite e quattro lettere a un’amica (1928-1929), Scheiwiller, Milano 1964; postumo.
  • Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1956; postumo.
  • Lettere 1945-1950, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1966; postumo.
  • Ciau Masino, Einaudi, Torino 1968 (edizione fuori commercio, nello stesso anno in Racconti, Einaudi, Torino 1968 come “opere di Cesare Pavese, vol. XIII tomo I”)
  • Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, pubblicato postumo, Einaudi, Torino 1952. Nuova edizione condotta sull’autografo a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, ibid. 1990.
  • Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966.
  • Interpretazione della poesia di Walt Whitman: tesi di laurea, 1930, a cura di Valerio Magrelli, Einaudi, Torino 2006 (ed. di 1000 esemplari numerati).
  • Tutti i romanzi, a cura di Marziano Guglielminetti, Einaudi, Torino 2000 (collana “Biblioteca della Pléiade”).
  • Tutti i racconti, a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglielminetti, Einaudi, Torino 2006 (collana “Biblioteca della Pléiade”)
  • Dodici giorni al mare, a cura di Mariarosa Masoero, Galata edizioni, Genova 2008.
  • Officina Einaudi – Lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, Einaudi, Torino 2008.
  • Il serpente e la colomba: scritti e soggetti cinematografici,a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Lorenzo Ventavoli, Einaudi, Torino 2009.
  • Il quaderno del confino, a cura di Mariarosa Masoero, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010.
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